LO STRANIERO @Teatro Studio Uno: quella tenera indifferenza del Mondo

C’è una evidente ricercatezza registica nello spettacolo LO STRANIERO, tratto da "L'Étranger" (1942) di Albert Camus, in scena ancora  dal 16 al 19 novembre al Teatro Studio Uno per la regia di Lorenzo De Liberato: in scena buoni interpreti, Marco Usai, Tiziano Caputo, Agnese Fallongo, Mario Russo ed un testo riadattato per la scena, già promettente nella versione in Pillole presentato allo Studio uno questa estate.
Non perdetelo, perché è una buona occasione non solo per riscoprire un autore (Premio Nobel nel 1957) che è alla base dell’esistenzialismo novecentesco, ma anche per godere della delicata attenzione che la regia di Lorenzo de Liberato (che abbiamo già apprezzato nel ruvido ECHOES e nel tenero LONELYDAYS) concede a questo capolavoro datato 1942.

 

Il testo viene infatti rispolverato nella sua accezione esistenzialistica senza calcare troppo sui significati – ma senza nemmeno dimenticarseli –  e, al contempo viene anche arricchito di piacevolissimi intermezzi cantati (a cappella), tecniche rumoristiche e veloci cambi di ruolo dei comprimari (4 attori in tutto, tutti affiatatissimi) che rendono l’intero impianto drammaturgico leggero e fruibile. E sicuramente originale nell’esercizio registico che vi sta dietro.

Siamo ad Algeri, Meursault un po’ come il suo autore, è un francese d’oltremare che vive e lavora, ormai integrato, in un paese arabo in cui si sente comunque “straniero”. Ma “straniero”, in realtà, lo è con la vita stessa e con ciò che gli accade intorno, persone, amici, amori che non sembrano toccarlo mai veramente. La madre, ricoverata in una casa di cura, muore improvvisamente e si trova costretto a seppellirla, senza però manifestare particolari moti d’animo. Intraprende una liaison con una giovane ex collega senza esserne realmente innamorato, si trova infine coinvolto in una sparatoria rendendosi colpevole di omicidio a mano armata contro un arabo, senza nemmeno comprendere le ragioni del proprio gesto. Condannato a morte, cercherà di trovare una ragione alle accuse di insensibilità (prim’anche che di omicidio) senza trovarle, accettando così la fine inevitabile per mano non tanto dell’uomo, quanto del caso.

Scegliere un testo come questo non è facile, perché la patina esistenzialista  sull’interpretazione della realtà di Camus e sullo straniamento arrendevole rispetto alla stessa è difficile da rendere a teatro senza annoiare o senza lasciarsi andare alle verbosità del testo. Qui non avviene perché tutto si è giocato sulle soluzioni di regia e sulla capacità attoriale di snellire i passaggi introspettivi e rendere al meglio quella vena di arrendevolezza consapevole dello straniero rispetto a ciò che accade. Il tuto condito da un buon uso delle luci tese a ricreare quella secchezza giallognola del deserto, sede dell'immoticità umana e d'animo del protagonista.

I tre attori in scena (Tiziano Caputo, Agnese Fallongo, Mario Russo) insieme a Meursault (Marco Usai) interpretano più ruoli con grande versatilità e velocissimi cambi d’abito, di voce, di intonazione, di postura, dimostrando capacità attoriali già visti in altri lavori di De Liberato. In particolare, è la voce femminile (Agnese Fallongo) a convincere per la sua versatilità e delicatezza. I due comprimari maschili sono buone spalle comiche, dalla recitazione versatile e dalla decisa carica ironica.

Tutto però gira intorno allo Straniero. La regia sceglie di affidare a questi la narrazione delle vicende, prim’ancora che esse accadano realmente: è lui a "dirigere" involontariamente (è la parola chiave) tutto; ma al contempo, la sensazione che ne deriva (anche a lui stesso) è che in fondo tutto avvenga senza una reale ragione e che non c'è nessun controllo del reale, nessuna ragione logica delle vicende. Sembra che tutto semplicemente capiti. Ciò facilita quel mecanismo di inspiegabile consapevolezza del reale nello Straniero che quasi riesce ad anticipare i gesti di persone che ben conosce (l'uomo malandato col cane) che situazioni in divenire, ma non riesce a spiegare il più insensato dei gesti, quello di uccidere e, soprattutto di non saper provare emozioni, neanche per la morte di sua madre.
In questo bisogna ammettere che la parte più difficile è proprio quella di Marco Usai, che rende questo Meursault un po’ meno asettico, ed un po’ più tenero e disincantato rispetto ad una realtà che racconta ma che non riesce davvero a controllare e di cui, in parte si stupisce senza trovare convincenti spiegazioni.

Per gran parte della piéce l’attore non può esprimere dunque sentimenti maggiori di quanto il suo autore gliene conceda. Il ruolo potrebbe divorarlo ed invece, no. C’è disincanto per la vita ma non è apatia, bensì quasi stordimento. Uno stordimento, ben reso, che si ripercuote nel corrucciare gli occhi davanti ad una luce troppo forte, uno stordimento ingenuo davanti allo scorrere degli eventi, degli affetti e degli amori, che l’attore rende con sorrisi contenuti e vagamente complici, che galleggiano su breve ammiccamenti al pubblico (in cui cerca comprensione). Un pubblico che lo segue nella narrazione, ma che con lui anche si smarrisce fino a quando, a luci sparate, quelle del deserto di Algeri (ben riprodotto sulla scena con uno splendido artifizio "sabbioso", ma non vi diremo come!) perde quasi il senso di sé e dei suoi gesti, senza precipitare per questo nella confusione, quanto piuttosto nella desolazione del non capire come e perché mai la sua vita sta cambiando (seguendo il filo dell'inutilità della lotta contro l'assurdo rappresentato dalla Vita stessa, leitmotiv di Camus).

La recitazione di Usai cresce poi negli ultimi atti, quando il vero motu propriu di coscienza risale dal profondo: nello scontro con il cappellano, la recitazione esplode nella sua flagranza non più controllata. Non sfocia però nel Pessimismo cosmico, ma resta violenta nelle parole, nella desolazione della consapevolezza, questo sì, che non c’è conforto alcuno nella religione, non c’è spiegazione nei gesti, lo Straniero non ha responsabilità reale per i suoi gesti perché tutto semplicemente è “agito” dall’esterno e non dipende, dunque da lui.

Una conclusione che lascia emergere l'ateismo esistenziale e quella sensazione sul finale, di profonda comprensione del disinteresse del mondo per l'umanità e anche per le misere vicende terrene di un uomo "Straniero" innanzitutto con se stesso per il quale ci viene da provare comprensione e tenerezza, la più umana delle emozioni, ricordando dentro di noi quella sua frase tanto laconica "Non si è mai del tutto infelici".

Visto il 9 /11/2017

Info:
Lo straniero di Camus – Biglietto ridotto prenotando come lettore di Gufetto
Adattamento e regia
Lorenzo De Liberato

Con Marco Usai, Tiziano Caputo, Agnese Fallongo, Mario Russo
musiche arrangiate ed eseguite dal vivo da

Tiziano Caputo, Agnese FallongoMario Russo

ass.regia Lorenzo Garufo
luci Matteo Ziglio

scene Laura Giusti con la collaborazione di Cecilia Fallongo
supervisione costumi Manifesto Costumista
foto e grafica Camilla Mandarino

coproduzione De Liberato / Usai e Teatro Studio Uno
 Dal 9 al 19 novembre 2017

Teatro Studio Uno via Carlo della Rocca, 6  Roma

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