Per definire cosa fosse un testo classico, Friedrich Nietzsche dichiarò che si trattava di “ottenere il massimo del risultato con il minimo dei mezzi”. Quello che avviene a Bologna Teatri di Vita dove Anagoor mette in scena L’ITALIANO È LADRO testo di Pier Paolo Pasolini con la regia di Simone Derai e un intervento critico di Lisa Gasparotto. Palco vuoto, quinte nere, due microfoni ad asta. Quanto basta a Luca Altavilla e Marco Menegoni per diventare tutto: personaggi e coro, mille lingue, e un dolore dolce e infinito, il tentativo di dirne le cause, e il silenzio.
L’avrebbe riconosciuta, Pasolini, questa splendida operazione. La guarda adesso, la ascolta dalla foto iconica appesa con una puntina da disegno sul fondale, come un appunto volante su una bacheca, o una foto mortuaria. Quello che si definì “non un uomo di teatro, ma un poeta che scrive testi teatrali” avrebbe sicuramente amato la mise en espace del suo poema plurilingue dalla lunga gestazione (1947 – seconda metà degli anni ’50), L’ITALIANO È LADRO messa in scena a Bologna, presso Teatri di Vita, da Anagoor. La mise en espace è la forma più asciutta, più democratica e suggestiva di rendere un testo riservando il massimo del potere alla parola, il massimo della libertà alla comprensione, alla fantasia e alla personale interpretazione del pubblico. Due attori al microfono, in alternanza o in coppia, a rendere tutto il fervore e la complessità di una scrittura lirica e ribollente. Un intervento critico di Lisa Gasparotto agito direttamente in scena: lontanissimo da qualsiasi intenzione didattica, invece nuovo, musicale strato linguistico, cristallino e scientifico, un’altra delle molte componenti di questo italiano ‘ladro’, diacronico, che non si stanca mai di capovolgere la clessidra e di comporre il mosaico delle proprie infinite mutazioni – neppure adesso, sotto i nostri occhi.
Pubblicato nel 1955 su “Nuova Corrente”, L’italiano è ladro è un testo complesso, difficilmente definibile: poema? romanzo in versi? coro? abbozzo drammaturgico? Forse tutto questo. Raccontando la storia di due amici, un borghese senza nome, forse il poeta stesso, e Dino, il proletario, che emigra e segue la sua parabola di ribellione mentre l’altro si lascia chiudere dall’appartenenza alla propria classe sociale e alla propria maschera innata, costruisce un segreto sistema di senso: politico, lirico, umano. Diventare Dino scrivendo di lui è sicuramente un tentativo di redenzione, personale prima e collettiva poi, un rimedio all’esclusione sociale, alla colpa di nascita che rende tutti, manzonianamente, oppressi o oppressori. L’autore tenta una vertiginosa regressione, un salto mortale all’indietro e dentro, un modo o molti modi di dire insieme il dolore, il male, e la causa del dolore. Tema squisitamente Anagoor, e non meraviglia che dopo Lingua Imperii possa annoverarsi L’italiano è ladro: in tutti e due i testi la questione della lingua è subito e completamente questione di potere. Gli interpreti si confrontano con un testo incredibile, variegato e mescidato, che su un sostrato settentrionale a largo raggio – “Frazione di…Comune di…/ primaverili/ nomi di luoghi lombardi o veneti/ in aro, in olo, in are…” “Fu nel fiume, la Meduna, ti pensi?/ o l’alto Brenta, o l’Olio…/ non ti pensi?” – innesta dialetti, dal friulano al veneto al milanese, innesta tentazioni e riprese latine, latino-dialettali, ricordi pascoliani – le “cerisuole”, “l’assiuolo – qualche verso delle Baccanti di Euripide – le cagne folli, che diventano poi le madri – canzoni popolari e addirittura, sottilmente, la dolcissima “dilezione di Dio” di Santa Caterina.
E la loro interpretazione è sovrumana: se la formula della mise en espace potrebbe lasciare spazio a sospetti di intellettualismo, e di conseguente freddezza, l’entrata degli interpreti nei personaggi è carne e sangue. È veramente incredibile, e addirittura disturbante, vederli diventare altro, fermi dietro l’asta del microfono, vederli compiere da fermi il salto della metamorfosi, trovare un respiro, e nel respiro ecco c’è il personaggio. E la dialettalità variabile di Dino e il colore popolaresco e la ribellione aggressiva e la disperazione fino alla bestemmia, strappo liberatorio di rancore, si nutrono davvero dell’energia del sangue e dei nervi di Luca Altavilla fino a un’incarnazione totale, inaudita. Bastano a Marco Menegoni le mani giunte e gli occhi socchiusi per trasfigurarsi in una mater dolorosa che poi si moltiplica in un coro, mentre la voce si fa mille voci su una tastiera liquida di pianto e cristallo, in una catabasi assoluta, dentro, sempre più dentro, finché diventa vero quel che il testo dice: non ci sono più lingue per dar voce al dolore.
Un testo di mille parole, prisma assoluto di pluristilismo, arriva, fatalmente, dantescamente, all’ineffabilità. Ci arriva sulla pelle di attori incomparabili, che si fanno silenzio dopo essersi fatti parola. Dolce e terribile parola. Come le Baccanti euripidee, si dice, provocarono nel pubblico del teatro di Dioniso svenimenti e aborti spontanei, anche qui un arcipelago di bellezza e terrore, di violenza e pena ci minaccia. Ci commuove, ci fa male, tanto è, come scrisse Shakespeare “l’inganno dell’arte”. Ma lo spettacolo finisce: davvero, uno spettacolo ‘ladro di cuore’.
L’ITALIANO È LADRO
Una transizione imperfetta
di Pier Paolo Pasolini
voci Luca Altavilla, Marco Menegoni
mediazione Lisa Gasparotto
suono Mauro Martinuz
regia Simone Derai
produzione Anagoor 2016
coproduzione Stanze 2016, Centrale Fies Teatri di Vita, Bologna
28 novembre 2019
ANAGOOR | Palazzo Grassi | L’italiano è ladro from Anagoor on Vimeo.