Al Club Disagio Firenze abbiamo assistito al debutto, il 12 aprile scorso, dell’esperienza performativa proposta da una giovane compagnia diretta da Giulia Cavallini. L’esile trama è resa testo teatrale da Leonardo Venturi. In scena: Lorenzo Carcasci, Ian Gualdani, Maravillas Barroso, Duccio Raffaelli, Melody Waysieh Behbahani, Serena Di Mauro, Leonardo Paoli e Giulia Vannozzi. Precise ed accattivanti le istruzioni per la partecipazione a Deep Human Trail – LEVELS tanto da creare alte aspettative: “chi partecipa a DHT si mette in gioco, accettando o rifiutando le richieste o consegne che gli/le verranno fatte; chi partecipa a DHT è padrone del proprio corpo e delle proprie emozioni, è libero di muoversi, reagire e rispondere, senza violenza alcuna, a qualsiasi accadimento, parola o evento gli si presenti.”
a cura di Michele D’Ambrosio e Serena Solpasso
Con queste premesse, gli spettatori, incuriositi, si incontrano in via Mazzetta, stretto vicolo nel cuore nello storico quartiere di San Frediano a Firenze. Sembra davvero di essere arrivati a destinazione “disagio” (anche a causa dei resti di un piccolo rogo sul ciglio della strada avvenuto il giorno prima). L’interno del locale non fornisce indizi sulla performance. In questo senso, la scenografia è inesistente. Ad accogliere i convitati non ci sono poltroncine e fari, ma solo qualche sgabello. È un pubblico strano, quello che affolla il locale, non proprio le solite facce. Tanto mistero avvolge questo spettacolo, i biglietti cartacei sono sostituiti da timbri che macchiano le mani o di blu o di rosso. È, quindi, offerta implicitamente una delucidazione circa la volontà di mettere in scena due rappresentazioni distinte – l’una realizzata al piano superiore, l’altra in una sorta di cantina – convergenti nel finale. La sala blu e sala rossa promettono due esperienze sensoriali e percettive distinte. I colori che riconducono alla scelta obbligata di Neo tra “pillola blu” e “pillola rossa” in Matrix aumentano la curiosità e il mistero. Dopo qualche minuto di attesa gli attori danno inizio alla performance: il volume della musica è alto, dietro al bancone ragazzi e ragazze che danzano; mentre al di qua altri attori si muovono freneticamente tra il pubblico, cercando di capire a quale sala ciascuno dei convitati sia destinato, spingendo (non solo in senso metaforico) a dirigersi verso il luogo della messinscena.
Gli spettatori che affollano la sala rossa assistono ad uno scambio di battute tra una barista ed un solito avventore del locale. Rivelano l’imminente arrivo di un nuovo personaggio. Tra ripetizioni e attese, la messinscena assume una forma sempre più definita. Il clima di violenza, a volte gratuita, è smorzato da tratti ludici, sulla soglia del ridicolo. Interviene una performer dalle fattezze di studentessa Erasmus, imbraccia delle armi ed espone il piano d’azione. A questo punto, inaspettati dialoghi al confine tra filosofia e stereotipia inneggiano al senso della vita, della morte e della noia (forse). Ancora, postulati sul mondo dei social coinvolgono gli ospiti, i quali, tentando di divincolarsi dai limiti socialmente imposti, si aprono timidamente al dibattito. Nonostante ciò, il clima di vacua violenza permane e l’aggressività dei performers nei confronti degli spettatori aumenta, fino a scagliarsi contro questi.
Scendendo delle strette scale in pietra, si raggiunge la sala blu, dove in contemporanea si sviluppa l’altro nodo del racconto. Qui gli ospiti sono accolti in modo brusco dagli attori, modalità relazionale che causa un senso di disagio ad alcuni di loro e una piacevole sensazione di far parte di un gioco ad altri. La trama su cui poggia la messinscena è poco chiara, esile, trasmessa in pillole e frammentata. Tre attori interagiscono nello spazio principale, circondati dagli spettatori; tentano di instaurare una relazione alla pari con essi; gli danno dei comandi; li toccano; gli parlano da una distanza ravvicinata, oltre l’immaginario confine che delimita lo spazio personale di ciascuno. Mentre due di loro mantengono uno stile comunicativo contrassegnato da toni aggressivi e bruschi, la terza smorza il clima di violenza che si va definendo con gesti ed espressioni di leggera comicità. Si va creando un clima grottesco: aggressività e banalità coesistono, strappando un tenero sorriso. Il coinvolgimento del pubblico è tentato anche nel chiedergli di collaborare alla trama del giallo in corso: a qualcuno è chiesto di pulire il pavimento da schizzi di sangue, mentre altri aiutano a sbarazzarsi del cadavere. Tuttavia la fragilità narrativa è tale che alcune risposte al pubblico appaiono incoerenti, con frasi che esulano dal copione, generando non poca confusione. Ci si chiede il senso della performance, delle intenzioni che vi sono alla base. Sono chiari agli attori stessi i punti salienti dell’esperienza? L’utilità e la logica? Di tutto ciò traspare poco, anche quando irrompe nella sala blu il gruppo di attori e di spettatori della sala rossa. Il desiderio di tirare le fila di una rappresentazione interattiva illogica è condannato alla frustrazione.
Lo spettacolo è pilota, prologo di un racconto più ampio che verrà compiuto in un futuro prossimo. Si tratta di un esperimento non proprio nuovo nel panorama teatrale – si consideri l’operato di Artaud – che tuttavia presenta tratti di originalità: i personaggi, che non sempre riescono ad arrivare in fondo, difendono il loro carattere brutale e spietato. Sono apprezzabili lo sforzo compiuto dai giovani performers e il progetto che la regista Giulia Cavallini con lucidità e precisione ha avuto modo di spiegare. Certo non nascondiamo la delusione delle alte aspettative create in precedenza, che ci lascia l’amaro in bocca. Si tratta di un ambizioso progetto che non è realizzato a pieno: poca decisione e titubanza nel rivolgersi al pubblico da parte degli attori; mancanza di empatia; un testo simpatico, ma poco ragionato e definito; una caotica messinscena che, a torto, pare quasi improvvisata e poco studiata. Sono tutti elementi che giocano a sfavore di una positiva riuscita. D’altra parte, è da sottolineare la giovane età di tutti i componenti della compagnia e, quindi, l’esigua esperienza che hanno impedito di far emergere in modo più sicuro il talento dei singoli. Ad ogni modo, si tratta di uno spettacolo ‘in divenire’ come riferito dalla stessa regista e dal drammaturgo. Ciò che possiamo augurarci è che diventi davvero sempre più coinvolgente nei confronti del pubblico, tanto da renderlo il vero protagonista della rappresentazione.
Deep Human Trail – LEVELS
Regia Giulia Cavallini
Drammaturgia Leonardo Venturi
Cast Lorenzo Carcasci Ian Gualdani Maravillas Barroso Duccio Raffaelli Melody Waysieh Behbahani Serena Di Mauro Leonardo Paoli Giulia Vannozzi
Sonorizzazione Francesco Giannetti
Luminotecnica Claudio Fornai
Organizzazione dell’Evento Fabrizio Orlandi Andrea Becattini
Foto di locandina Marco Borrelli
Foto Making off Leonardo Taddei
Video Marco Ballerini
Un ringraziamento speciale Associazione Culturale Gauss del club Disagio
Club Disagio, Firenze