Una composta commozione ed uno scroscio di applausi hanno accompagnato la prima romana di L’EFFETTO CHE FA, in scena fino all’8 novembre nell’elegante e nuovissimo spazio romano di OFF OFF THEATRE di Roma in via Giulia. In scena Valerio di Benedetto (Manuel Foffo) – Riccardo Pieretti (Luca Varani) e Fabio Vasco (Marco Prato)
Lo spettacolo scritto e diretto dal giovane e promettente Giovanni Franci, a poco mendo di due anni dall’omicidio Varani tenta di far luce, non senza qualche polemica e sorpresa per la vicinanza temporale coi fatti narrati, sulle motivazioni intrinseche e sulle dinamiche cronachistiche di un caso che ha scosso la comunità romana (omossessuale e non) nel marzo 2016.
Un festino gay organizzato da un insospettabile ragazzo bene e da un PR omosessuale si traduce in un massacro violento ai danni di un giovane coinvolto in uno scambio di favori (sessuali o di traffico di stupefacenti ancora da chiarire); un omicidio che dirà la magistratura essere “efferato, premeditato e pluri-aggravato dalla futilità e dalla crudeltà”.
Lo spettacolo ci lascia una pietra nel cuore, un dolore non tanto e non solo per la tragica fine della sua vittima, quanto per l’affresco impietoso ma giusto, corrosivo e ragionato di quel degrado sociale (in secundis) e interiore (in primis) che attanaglia i due assassini: delle monadi portatrici sane di un egocentrismo radicato e di una vanità costruita artificialmente, vittime tutte e tre di una crisi identitaria e di genere tremendamente sprezzante, più o meno coscientemente negata o malcelata e condita da una omofobia di fondo che ha indotto quel corto circuito interiore deflagrante consumato nella via “finale” dell’annientamento dell’altro, per “vedere l’effetto che fa” togliere la vita e degradare l’altro rispetto alla già propria conscia infimità.
In questo fine esemplificativo, lo spettacolo si pone come lucido e in parte didascalico. Tutto si apre con una domanda che suona quasi di excusatio non petita: “che motivo c’è di raccontare questa storia”? E la risposta è immediata, lampante, fornita dalla vittima Varani, narratore dall’aldilà dei fatti umani: “se una storia non la puoi capire, non la puoi nemmeno perdonare”. Anche se qui “capire” non vuol dire “giustificare”. E “perdonare” è un atto di fede che lasciamo alle coscienze. In noi che qui viviamo è difficile perdonare ma capire… capire è doveroso, come è doveroso capire per punire e prevenire.
Ed è forse questa la ragione che dovrebbe spingere tutti (della comunità del mondo gay e non) a vedere questo spettacolo: capire il “degrado”, questa la parola chiave che seguiremo, che vive sotto la pelle di tre uomini che sono anche tre disperazioni contemporanee.
Due sono inquiete e si aggirano in cerca di una vittima sacrificale sui social o nei giardinetti del palazzo di periferia, poco conta, non lontane dai luoghi che Pasolini percorse e visse, e dove questi nuovi “ragazzi di vita”, pur essendo da quelli lontanissimi per estrazione sociale e valenza culturale, sono a quelli vicinissimi nella caratterizzazione sintomatica di un degrado socio-culturale e valoriale in una Roma contemporanea definita “in coma” (e tale è ancora). Una Roma ingombra di rifiuti e immondizia (anche interiore) lasciata marcire nelle strade, aridamente “desertica” al punto che, biblicamente, “alla fine un Diavolo ti viene a cercare”. E per tale “Diavolo” si intende la sopraffazione omofobica contro l’omosessualità latente dentro se stessi, quella voce interiore a cui spezzare le corde vocali nella bocca altrui, fra disperazione e negazione del proprio io.
I due assassini, ma per cauta estensione anche la vittima, vivono un rapporto critico con la propria identità sessuale, la negano, la stigmatizzano, oppure ne esasperano le caratteristiche di fondo.
Sulla scena infatti, almeno all’inizio Manuel Foffo e Marco Prato si trovano ai lati estremi del palco, scelta registica intelligente: sono lontani, non si parlano mai veramente ma offrono agli spettatori un proprio monologo ricostruttivo della vicenda, condito da un persistente egocentrismo verbale. Altro non è che l’espressione di un'indole autocelebrativa e di difesa della propria caratterizzazione machista e femminile rispettivamente difesa e agognata (Marco Prato viene fatto vestire da donna per far risaltare il costume della propria identità come quello più consapevolmente tragico, Foffo è a petto nudo e dal ciglio aggrottato).
Lontani e poi “uniti” in quella frase, tratta dagli atti di cronaca, “per sempre, da quello che abbiamo fatto”, quasi un paradossale ribaltamento nero, dell’Unione omosessuale, di quel riconoscimento di identità così faticosamente conquistato proprio nel 2016. Una beffa.
Tra loro il giovane Varani, è qui un narratore disincantato, a tratti vagamente ironico (ben calibrata la performance di Riccardo Pieretti rispetto all’immagine ricostruita da social e testimonianze di conoscenti e parenti). Su di lui la scelta registica, ci sembra quella di soprassedere, di non giudicare, ma di collocarlo nel bordo del vuoto identitario degli altri due, senza spingerlo giù. Senza infierire oltre. Giusto.
Sulla scena un tavolo che diventa altare sacrificale del giovane Varani, denudatosi, ucciso in una finzione scenica simbolista, e poi rivestitosi subito dopo la proiezione di un audiovisivo che riavvolge in sequenza le immagini delle stazioni della metro e del treno che avevano condotto la vittima da La Storta (dove abitava con la famiglia adottiva) al Collatino, quasi in un paradossale bisogno (registico o di noi tutti?) di ritorno in vita del giovane, scelta questa che, seppur lodevole, ci risulta inutilmente lacrimevole e stonante con il quadro a tinte realistiche e fosche con cui si è condita l’intera rappresentazione.
È la drammaturgia a convincerci però di più (senza nulla togliere alla buona seppure emozionata performance dei tre attori e ad alcune scelte registiche azzeccate): perché trasuda realtà e ragionamento, induce riflessioni suggerendo una possibile risposta con delicatezza. DSisegna, spietatamente una realtà di degrado e martoriata, vuota, che va di pari passo con la vacuità identitaria dei tre giovani. Sebbene si affidi ad una narrazione cronachistica del reale, non manca di spiegare, quasi con un vago intento didascalico, perversioni, strumenti di approccio e dettagli sull’utilizzo chimico delle sostanze stupefacenti, sinistre comparse di questa vicenda, importanti laddove facilitano la commissione di gesti inusitati ma non per questo alibi uniche di un massacro pianificato dettato da una scintilla “vedere l’effetto che fa uccidere” che appare sulla scena quasi come involontaria e allo stesso tempo lampante, necessaria, covata e ora pronta a esplodere.
L’apporto simbolico vive ed è presente nella messa in scena, ma il bisogno di realtà emerge forte e in modo più immediato. Questa irrequietezza che condisce tutta la ricostruzione quasi “giallistica” dell’omicidio tenta di afferrare il senso di un “atto di violenza gratuita” che nella sua “gratuità” lascia emergere il vero problema: il disprezzo omofobico non solo per la comunità gay da parte dei due assassini e in misura minore anche da parte della vittima (in base alle ricostruzioni dei social) ma anche per se stessi, tendenza che è evidente in Foffo. Da lodare la tensione muscolare ed espressiva di Valerio di Benedetto nel rendere Foffo coriaceo e sprezzante nel suo essere convintamente etero; quasi incapace di capirsi nel suo essere una vittima di se stesso, stritolato sì da una famiglia che lo voleva in un certo modo, ma al tempo stesso incapace di soffocare quella scintilla di omofobia repressa e interiorizzata, sintomo di un degrado identitario grave ma diverso da quello più edonista di Prato. Quest'ultimo viene reso da un Fabio Vasco emozionante, disarmante già nell’aspetto, attento, attentissimo a non fare dell’uomo che rappresenta una macchietta tragica, ma solo una maschera fragile di vanità, vittima anch’egli di se stesso prim’anche che della famiglia, oggetto di un esplicito giudizio registico sulla carenza valoriale trasmessa ai figli, entrambi quasi castrati da due padri ingombranti e distaccati, co-partecipi involontari del degrado identitario di entrambi.
Come si diceva in apertura, lo spettacolo ci lascia un peso sul cuore e uno attorno al collo: l’analisi del degrado inteso come passaggio da un grado di deterioramento progressivo dell’efficienza (di una società) e dell’integrità (da parte di un gruppo di disperati) ci porta a riflettere sulla necessità che questo spettacolo non si fermi solo ai pavimenti lussuosi dell’OFF OFF Theatre ma si spinga oltre, arrivi nelle periferie, dove tante realtà di violenza, omofobia, transfobia e finanche razzismo per il “diverso” sia esso un nero, un omosessuale, un immigrato o un disagiato sono vive e presenti e potenzialmente esplosive in un conflitto che, dapprima interiore, sfocia poi in moto violento e spregiudicato su vittime inerti, figlie e schiave di un degrado sempre più comune.
Info:
Dal 31 ottobre all’ 8 novembre 2017
L’EFFETTO CHE FA
Spettacolo teatrale scritto e diretto da Giovanni Franci
con Valerio di Benedetto (Manuel Foffo)
Riccardo Pieretti (Luca Varani)
Fabio Vasco (Marco Prato)