LE SERVE@Piccolo Teatro Grassi Milano

 

‘Le serve’ (titolo originale ‘Les bonnes’) è un dramma (atto unico) uscito nel 1947 dalla sofferta penna di Jean Genet (Parigi 1910-1986) – scrittore, drammaturgo e poeta della ‘società del male’ dalla vita tormentata a tal punto da confondere realtà e finzione sia nel quotidiano sia nell’attività letteraria e sempre attento verso emarginati e oppressi – che si è liberamente ispirato all’efferato massacro di madre e figlia (componenti di una famiglia borghese) avvenuto a Le Mans nel 1933 in seguito a un rimprovero per futili motivi a opera delle sorelle Christine e Léa Papin al loro servizio da quattro anni.

Il testo decisamente impegnativo desta l’ammirazione di Jean-Paul Sartre e dell’ambiente culturale parigino (non senza polemiche sulle qualità letterarie dell’autore e sul suo essere un ‘genio maledetto’ essendo molte sue opere all’indice e vendute sottobanco) che perorano la causa di Genet salvandolo dal carcere a vita che per recidiva gli sarebbe spettato dopo il decimo arresto per furto, sua attività principale dai 10 ai 36 anni ed espressione di un disagio determinato dall’abbandono in tenera età, dall’essere cresciuto in buona parte in orfanotrofio e dall’avere condotto un’avventurosa esistenza tra omosessualità, delinquenza, carceri, vizi, viaggi. Quando assurge dalla polvere della delinquenza anonima all’altare del successo, Genet, pur impegnandosi socialmente, non muta la vita da clochard inquieto e vagabondo in compagnia di una valigetta capace di contenere ‘i suoi beni’… restando legato all’emarginazione.

Il truce fatto di cronaca di Le Mans, se desta interessi e discussioni nell’ambito della medicina, per Genet rappresenta l’occasione per mettere in luce ciò che di artificiale e falso c’è nella scena teatrale come in quella in cui Solange e Claire, le due cameriere che amando e odiando Madame – la loro padrona che le sottopone a piccole angherie capaci di fare venire a galla frustrazioni emotive e psicologiche subite durante infanzia e adolescenza e che con il suo comportamento costruito da infiniti pregiudizi fa sì che siano scarti sociali come lei le giudica – inscenano, ogni sera in cui rimangono sole, un teatrino nel quale impersonano alternativamente i ruoli di serva e padrona imitandone gesti e parole e indossandone gli abiti con un finale drammatico per Madame di cui nella realtà denunciano l’amante tramite lettere anonime.

Il fatto che costui scagionato stia per uscire di prigione e possa individuare chi gli ha giocato il brutto tiro fa detonare la situazione trasformando la fantasia e il gioco, prima vissuti come reali, nella vera realtà con un divenire altalenante tra le due situazioni e determinando una psicosi che spiazza gli spettatori.
Interessante notare come Genet, volendo mostrare “la femminilità senza femmina” indica quali interpreti perfetti due giovinetti per meglio evidenziare che le protagoniste in realtà rappresentano la pluralità di coloro che a vario titolo sono rifiutati, oppressi, giudicati ‘diversi’ e perciò marginalizzati.

Sulla scena del Grassi in un’elegante camera da letto dalle tinte fosche, quasi a indicare l’aura della pièce, si muovono con notevole perizia tre grandi interpreti quali Anna Bonaiuto (Solange), Manuela Mandracchia (Claire) e Vanessa Gravina (Madame): le prime bravissime nel difficile e impegnativo gioco (svago perverso di adulte mai cresciute, gelose, frustrate, invidiose, schizofreniche che nell’infanzia non hanno forse mai potuto dedicarsi ai giochi propri dell’età) altalenante tra finzione e realtà e nel rendere l’amore-odio reciproco e l’essere dolenti a causa di una vita avara di soddisfazioni, la terza ben calata nel personaggio di donna bellissima, sensuale e distaccata nel suo empireo sociale, una Barbie troppo in alto per riuscire a vedere i problemi altrui, tanto più se così in basso…

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