LE LEGGI FONDAMENTALI DELLA STUPIDITA’ UMANA @ Teatro Goldoni. Perchè la stupidità è irresistibile

Al Teatro Goldoni di Firenze per il Festival del Maggio Musicale Fiorentino è andato in scena Le leggi fondamentali della stupidità umana opera musicale di Vittorio Montalti ispirata all’omonimo saggio satirico scientifico dell’economista Carlo Cipolla per la regia di Giancarlo Cauteruccio.

La stupidità, universale condizione umana, è un tema più audace di quel che si possa immaginare, lo scrittore Musil nel suo Discorso sulla stupidità lo mette subito in chiaro: “se la stupidità non assomigliasse tanto al progresso, al talento, alla speranza o al miglioramento, nessuno vorrebbe essere stupido”. Ma la sfida è alta non solo per la complessità della tematica. Il saggio, ovvero lo scritto di partenza, non offre narrazione né dialoghi e si sottrae completamente a una drammaturgia convenzionale. Si tratta di trasmutare quelle argute teorie in un soggetto teatrale. Niente di più appassionante per il giovanissimo Vittorio Montalti, compositore che osa l’astrazione, niente di più affine al librettista Giuliano Compagno, capace di un linguaggio diretto e metafisico, poetico e impietoso, e chi poteva curarsi della regia se non Giancarlo Cauteruccio che da sempre procede per visioni e potenza grottesca e lavora contaminando le arti?

L’alto livello culturale del progetto è quindi nel talento di questi tre autori che si sono costantemente confrontati a maglie larghe, secondo i propri stili, riuscendo infine a tessere un’unica partitura, precisa e ineluttabile, eppur leggera. Sfida ampiamente riuscita. La regia è assolutamente meravigliosa, mi è parso di stare nel tempio dell’arte. La musica di Montalti è raffinata, sottile, rarefatta e coinvolgente, un ritmo sonoro e canoro di brevità, frammenti in salire per un fraseggio leggero ed essenziale. Il testo di Compagni suona di per sé in consonanza con la composizione musicale attraverso gli allusivi e fonetici giochi di parole, le rime, le compiute scansioni, e di pari eleganza, la grazia evocativa e scarna del suo monologare. Siamo davanti alla rarità di un tandem perfetto.

L’impianto strutturale dell’opera segue i cardini del saggio: 5 sono le leggi della stupidità, 5 sono i quadri. 4 le categorie dell’umano – sintesi scomoda di ognuno di noi – 4 i non protagonisti: lo stupido, l’intelligente, il bandito e lo sprovveduto. Se i confini di queste figure sublimi non sono netti, netto è il loro (nostro) isolamento. “Io vedo il sospiro che geme” sono versi poetici a dare inizio all’opera, è lo stupido a cantare questa sinestesia, perché stupidità e stupore si incontrano alla radice e quando la regia è affidata alle creazioni di Cauteruccio assistiamo al realizzarsi dello stupefacente. Siamo da subito immersi nella visione: sinestesia e simultaneità di musica, canto, immagine e gesto. “Io penso fangoso diletto” è il verso dell’intelligente, mentre il bandito canta “io faccio il sanguinoso inferno” e lo sprovveduto “sogna la via più alta”.

E alta e grande è la struttura in scena, ma spoglia come un’impalcatura in attesa. Il canto, le parole, in prima battuta, vi sono collocati sopra. Sotto, ai lati opposti del palco, due figure irrisarcibili, nell’informe e immobile abbandono beckettiano, dicono il silenzio, che sta prima e dopo, che sta sempre, tra Finale di partita e Giorni felici: un uomo su una sedia a rotelle con una coperta sulle gambe e una donna affondata in un abito incrostato di secoli con in mano un ombrellino da sole. La sovrana ossatura metallica può ricordare un ponte, un ponteggio fisso, la radiografia di una città, ma è essenzialmente un non luogo con cui il regista gioca, reinventandone continuamente le geometrie, sempre mobili nella dimensione virtuale. Le bellissime linee e le proiezioni digitali sezionano, moltiplicano, smontano e ricostruiscono graficamente lo spazio scenico, e i tasselli di pieno colore e i contorni, che possono ricordare Mondrian e il formalismo, si fanno pulsazioni di luce e direzioni frenetiche. L’architettura è inabitabile e affollata da esseri sempre più disorientati, l’architettura collassa sotto la storia in loop, sotto gli stimoli delle infinite possibilità, in un susseguirsi di corti circuiti. Lo spazio scenico diventa così la metafora dell’incomunicabilità contemporanea, potenzia la meccanica di queste figure sublimi che si offrono in una circolare dichiarazione di solitudini, e aldilà di restare incistati nel medesimo mastice, le quattro differenti direzioni si riflettono nel disegno complessivo.

L’incomunicabilità sboccia nel Quadro 1, dichiarata dalle ostinate divisioni di prospettive, a cui l’intelligente stesso si arrende: “mai nulla/ a che fare/ se non da morti/ se non polvere e liquidi”. Il primo passaggio visivo che colpisce è dal rosa shock a un bianco e nero e il quotidiano indistinto, identico, che prende forma nel passeggiare automatico di figuranti e cantanti. “L’illusione sta nel fatto di confondere/ il nostro piccolo ambiente/ con l’universo mondo”. Ogni quadro si chiude con una voce off che riflette intorno alla legge appena evocata.
Nel Quadro 2 le voci si intersecano becchettandosi e guerreggiando, in un agitarsi di corpi a caccia di soluzioni, slogan, epitaffi consolatori, vacui titoli universitari. Tutti compiacenti, per motivi diversi, alla gerarchia. Colpisce la figura arlecchina dello sprovveduto, il cui corpo sembra tentar conciliazioni. L’intelligente-sprovveduto canta la mancanza caproniana del bersaglio. E qui le carte si stanno svelando, pur non incontrandosi e non riconoscendolo, l’uno è anche l’altro e viceversa. Adesso a vedere “il sospiro che geme” è l’intelligente. La varietà dei passaggi musicali corrisponde al mutare delle situazioni ed è resa ancor più godibile dall’intervento di un pianino giocattolo, e da improvvise introduzioni di elettronica, percussioni su padella e bottiglia di vetro. La dimensione in cui ci trasporta è surreale ed umoristica. “Se confidi nei poteri e negli onori… se il Sapere non vale/ allora arrenditi, ammettilo/ che vai di male in male”.
Nel Quadro 3 si avverte il precipitare verso il caos, una guerra in toni onirici e grotteschi, una musica che tuona, batte, s’incupisce mantenendo dei trilli e delle sonorità infantili. Il momento del se e del ma in cui gli avverbi-dilemmi diventano un mantra è un dondolare di corpi e voci, un momento di sorprendente e ipnotica fusione tra musica, movimento dei corpi e canto. “Credere che fosse una bella vita cedere intelligenza alla stupidità”.
I gingilli sonori che evocano le comiche e lo scoordinamento del corpo si fanno elettronici e si trasformano in una tetra discoteca. La bianca moltiplicazione della struttura che scorre, con l’effetto di un inutile sbandierar di scale e linee verso l’alto. Il Quadro 4 si addentra nella regressione politica, il quartetto si alterna stavolta tirandosi contro le conclusioni. Il bandito s’appropria della poesia dell’intelligente capovolgendola “nulla da scambiare mai/ mai nulla a che fare/ se non da vivi/ se non misfatti e crimini” Nelle riflessioni fuori campo si indaga sulla matrice del collaborazionismo citando Anna Freud e la sua teoria dell’identificazione con l’aggressore come autodifesa “gli hai fatto il verso/ lo hai imitato”. “O si è felici o si è complici”. “Tu non sei stato mai felice. Tu non sei stato mai. Tu non sei.” Siamo nei pressi della massima stupidità, all’azzeramento, al suo pericolo estremo: l’obbedienza. Siamo giunti al Quadro 5.

E anche se il finale sigilla il caos nel culmine del vice-versa, senza previsioni di dialogo e ascolto. Anche se le creature beckettiane tornano identiche nelle loro fosse-postazioni. Anche se “la stupidità del potere si basa sulla violenza del disprezzo” e questa discesa negli inferi è attualissima, io esco felice, istupidita dalla bellezza. Come afferma il regista “se non siamo un po’ stupidi non riusciamo ad innamorarci”. Quest’opera innamora, disinnesca i meccanismi di difesa. Disinnescaimeccanisimididifesa. Frase gigantesca che appare al posto della parola fine. La forza di questo spettacolo è la presenza del sublime, nonostante i quadri vadano verso lo sfacelo, la bellezza e lo stupore non abbandonano mai il pubblico.

 

Info:
Le Leggi fondamentali della stupidità umana
di Vittorio Montalti
ispirato al saggio omonimo di Carlo M. Cipolla
regia Giancarlo Cauteruccio
libretto Giuliano Compagno
maestro concertatore e direttore Fabio Maestri
soprano Ljuba Bergamelli, mezzosoprano Victoria Massey, tenore Manuel Amati, basso Oliver Pürckhauer
in collaborazione con Accademia di Belle Arti di Firenze e il Conservatorio di Musica Luigi Cherubini
commissione del Maggio Musicale Fiorentino
foto di Michele Monasta

Teatro Goldoni, Firenze
PRIMA ASSOLUTA

29 maggio 2019

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