Nella interessante e confortevole cornice off del Teatro Studio Uno, Caterina Gramaglia è tornata in scena con i suoi tre lavori principali, THE WHITE ROOM, LE LACRIME DI GIULIETTA e il nuovo CABALA, racchiusi nella Trilogia della Memoria che si chiude il 7 febbraio.
Ad unire le tre opere è forse il concetto di “Ricordo”: la Gramaglia sia in THE WHITE ROOM che ne LE LACRIME” richiama alla memoria delle figure di attrici “leggendarie”. In “CABALA” il ricordo si piega alle dinamiche della Memoria della Shoah ed il richiamo è diretto ai componenti di una famiglia ebreo-italiana investiti dalla furia del conflitto e dai rastrellamenti condotti purtroppo, anche in Italia.
THE WHITE ROOM e LE LACRIME
Unire tre opere così diverse in un unicum è un’operazione artificiosa e un po’ forzosa, che però nulla toglie al valore dei tre spettacoli, che racchiudono il consueto lavoro di ricerca sulla originalità nella trasposizione scenica e nella visione multi-prospettica e accavallata di una galleria di personaggi molto diversi fra loro e in qualche modo “anomali”, caratteristica pregnante dello stile narrativo-teatrale della Gramaglia che si ama o non si comprende.
L’attrice sfrutta come sempre l’audiovisivo in funzione narrativa e alterna momenti recitati a momenti cantati in tutti e tre gli spettacoli. Scelta che fa risaltare la bella voce dell’interprete, accompagnata dalle musiche di Caetano Veloso suonate dalla chitarra di Ennio Speranza in LE LACRIME, una coloritura nient’affatto sgradita, che ritorna puntuale in tutti e tre gli spettacoli, confermando la scelta di narrare per immagini e per suoni con eguale parità e intensità.
Dopo aver visto le tre opere, non possiamo non notare come risalta sempre nel lavoro della Gramaglia, l’impegno costante nel creare uno spettacolo multiforme, camaleontico. L’attrice entra ed esce dai suoi personaggi con grande disinvoltura, ne tratteggia caratteri e tonalità espressive con cura e grande interiorizzazione. Mai troppo dimostrativa, la Gramaglia a volte fa dei suoi personaggi una caricatura beffarda (è il caso della attrice giapponese e di Nora Duselli di “THE WHITE ROOM”) a volte ci lascia un ricordo nostalgico, “in bianco nero” come quello della Masina nelle “LACRIME”; a volte accenna un ritratto dolente e incompiuto ma a nostro avviso indimenticabile, come quello di Edna Volterra in “CABALA”.
Sono tutte figure femminili che, a nostro avviso, racchiudono l’ispirazione rispettivamente comica, tragicomica e drammatica dell’attrice, quasi felliniana nel tentativo di creare un grottesco surrealismo caricaturale e in quella continua sovrapposizione di piani espressivi, quasi inconciliabili fra loro all’interno del medesimo spettacolo (l’ultima donna di THE WHITE ROOM era la malinconica Giulietta degli Spiriti della Masina, un personaggio fortemente stridente con gli altri due, pervasi al contrario da una verve comica piuttosto spiccata).
CABALA
Il nuovo lavoro della Gramaglia, CABALA, realizzato in collaborazione con l’autrice e regista Rosa Morelli con le suggestive percussioni di Edù Nofri, è forse la summa del tentativo di narrazione multiforme della Gramaglia, che però si avvita non su figure femminili lontane nel tempo e slegate fra loro, ma su componenti (maschi e femmine) di una famiglia ebraica del ‘43, non ancora però compiutamente caratterizzati. Lo spettacolo ha infatti una narrazione così frammentata e intrecciata con la simbologia delle Sefirot ebraiche da risultare ancora sfuggente, oscuro, a tratti sofferto. Uno spettacolo che si svela pian piano, rivelando i rapporti fra i personaggi maschili e femminili per ora solo accennati, sui quali l’attrice non calca la mano con la caratterizzazione, almeno per ora.
Sicuramente più forte nelle figure femminili, la Gramaglia da vita ad uno spettacolo profondo e anche dolente: centrali il concetto di Dio, oggetto di continue dolorose riflessioni filosofiche-esistenzialiste, contro il quale risuona anche una certa rabbia, che resta come un "rumore di fondo" insistente al punto da portarla ad affermare con vemenza "E poi ci sono Io!", quasi a rimettere al centro del discorso l'Uomo e il suo Dolore, e non anche Dio ed il suo Distacco nonostante le sue tante "manifestazioni" cabalistiche.
Il personaggio maschile di Raphael Volterra è forse quello che ci lascia più incuriositi, perché di fatto -e forse volutamente- risulta il più incompiuto e quello sul quale ci piacerebbe vedere la Gramaglia all’opera (mai finora l’avevamo vista immedesimare un personaggio maschile).
Interessantissimo nel suo insieme, lo spettacolo è però assolutamente da sfoltire per renderlo maggiormente fruibile ad un pubblico di non esperti, focalizzandosi solo su alcuni personaggi chiave a discapito di altri, svicolando (a nostro avviso) dal continuo richiamo alle Sefirot e alle deviazioni filosofiche (come quelle del Giardiniere), che appesantiscono la rappresentazione.
Maggiore sia la luce sulla scena, maggiore la spiegazione dei significati, ma soprattutto maggiore sia la luce ai personaggi davvero interessanti emersi, su tutti Edna Volterra che meriterebbe, a nostro avviso, uno spazio narrativo a parte, che ne esalti le potenzialità narrative e l’esplorazione drammatica del personaggio delineato.
Siamo sicuri che Caterina Gramaglia non ci deluderà, portando avanti il suo teatro di sperimentazione ben al di là delle nostre previsioni e indicazioni.