Al Teatro Era in scena l’applaudito ABISSO di Davide Enia. Un lungo silenzio. Una scena del tutto spoglia, con una luce radente, blu profondo: l’abisso, appunto. Poi la marea di suoni che Giulio Brocchieri dal vivo evoca con i suoi strumenti musicali. Davide Enia entra in scena. Tutto comincia.
Un teatro di parole. Servono a raccontare tutto. Lampedusa, la determinazione misteriosa di andarci per uno scopo ancora da definire, il primo sbarco di migranti, declinato in numeri e in iperbole. Duecento ragazzine: tutte svengono. Cinquecento persone, a cui viene fornita assistenza medica, cibo e coperte isotermiche. E le parole diventano cose, onde, corpi, una messa nera, galleggiante e sfuggente, incalzante. Le parole diventano indicibili, si rifiutano di farsi ricordo, di ripetere la frase terribile “chiudiamo i porti! chiudiamoli fuori!” che l’amica Paola, sorpresa, sopraffatta e stravolta dal naufragio di massa a pochi metri di mare dalla sua casa, pronuncia come prima reazione, sconfessando tutto, l’etica, la militanza di sinistra, ma testimoniando il nostro profondo bisogno di chiudere, di nascondersi, di difendersi. E poi le parole diventano un discorso di inaudita e scontrosa pietà, diventano una sola certezza, il dovere del salvataggio. In mare si muore, e noi viventi dobbiamo proteggere la vita. Chi si salva prima, se a tre metri abbiamo tre adulti in pericolo e a cinque metri una giovane madre con un neonato in braccio? Economia della vita: tre vite contro due, nessun dubbio.
E ancora, le parole diventano personaggi. La recitazione asciutta, pulita, ‘a forza di levare’ di Enia dà loro vita in dignità e pudore. La gestualità leggera, le mani, quasi volo barocco di uccelli collegati solo per un filo al fluire di un discorso incisivo e terribile, lo aiuta a renderceli vivi. Il sommozzatore, salvatore casuale di decine di vite, meravigliato del silenzio del fondo marino, così simile a quello delle sue montagne. Il custode del cimitero, Vincenzo, unico in grado di avvicinarsi a un relitto dove i corpi già si decompongono e col loro fetore respingono qualunque trattamento di pietà con l’espediente favolistico e poetico di riempirsi naso bocca di foglie di menta. Vinto l’orrore, respinto il restringersi della pietas, i morti vengono lavati, ricomposti, sepolti, ed ogni sepoltura ha una croce: questo segnale d’amore non sarà di troppo per defunti di cui non conosciamo la religione, perché alla fine – e qui il bellissimo dialetto scolpisce la sentenza – le ossa di tutti saranno bianche.
Le parole diventano episodi che la tragedia greca invidierebbe. Il bambino ripescato dalla furia delle onde e riportato al padre che stava per scegliere la morte, convinto del decesso del figlio. La violenza sulle donne, che “nemmeno agli animali”, ellissi estrema che tuttavia non basta a rendere l’orrore, e interviene il ritmo del “cunto”, non più epopea antica da paladini, ma pulsione vitale, respiro contratto, indignazione e riscatto, in cui la cadenza signorilmente palermitana di Enia si indurisce e incupisce, facendosi strumento docile alla rappresentazione del dolore.
La forma teatrale, così saldamente padroneggiata, tenta qui il suo volo più alto, ma la struttura dello spettacolo è segretamente molto letteraria. Il romanzo di Enia, “Appunti per un naufragio”, pubblicato da Sellerio, è una radice nascosta ma non sradicabile. Il topos del naufragio, tutti lo sanno, è un archetipo della nostra letteratura: dal celeberrimo ossimoro leopardiano del “naufragio dolce” all’occhiata di terrore e di trauma che Dante personaggio getta a “l’acqua perigliosa” nel primo canto dell’Inferno, molti sono gli esempi richiamabili. Ma molto probabilmente l’accezione che più ha influenzato il testo di Enia è quella lucreziana, un “naufragio con spettatore” in cui si sostiene che è dolce, certo, vedere gli altri in pericolo mentre noi siamo salvi. Ecco, qui la situazione è capovolta. Lo spettatore entra in mare, abbandona l’indifferenza, reagisce al richiamo. Come nota Laura Girotti, recensendo lo stesso spettacolo al Teatro Arena del Sole, i ragazzi che affogano non gridano il proprio nome per orgoglio, ma per motivazioni ben diverse: “è per avere un’identità che si grida il proprio nome, lo si grida in mare, mentre si affoga, con l’ultimo fiato rimasto, affinché quel grido possa arrivare”. E arriva, e aziona una reazione.
Dalla pagina al teatro, da testimone Davide Enia diventa, qui sul palco, uno dei pochi in grado di aiutare a sciogliere il silenzio. Dopo un trauma, si tace. Le parole, la musica, il cunto di un artista riescono a sciogliere la museruola di ghiaccio, a far sì che dopo il tuffo negli abissi si possa riemergere. Alla vita, certo, ma anche alla dignità che è il nodo profondo della nostra umanità. Trasportati dalla groppa del toro di Poseidone, come Europa nel mito, ecco, tutti noi siamo nati da una traversata, e da un tuffo profondo.
L’ABISSO
di e con Davide Enia
musiche composte ed eseguite in scena da Giulio Barocchieri
spettacolo tratto da Appunti per un naufragio (Sellerio Editore)
produzione Teatro di Roma, Teatro Biondo Stabile di Palermo, Accademia Perduta/Romagna Teatri in collaborazione in collaborazione con Festival Internazionale di Narrazione di Arzo Teatro Era
16 febbraio 2019