In un angolo nascosto e non certo dimenticato del quartiere San Giovanni, vicino via Sannio, all'ombra degli scatoloni e detriti di mercato rionale, si apre la luminaria di uno scrigno fascinoso: Il Teatro Lo Spazio. L'autore e regista Stefano Reali, noto per i suoi lavori televisivi e cinematografici, mette in scena “La Volpe e il Leone” con un cast d'eccezione: Ruben Rigillo, Giuseppe Zeno, Serena Iansiti e il cameo amichevole del gigante del Teatro: Mariano Rigillo.
In scena fino al 17 febbraio!
La pièce svela o tenta di svelare la frode teatrale di tutti i tempi: il Bardo di Statford è in realtà italiano anzi di Messina. La storia da molti anni fa il giro di accademici, attori, giornalisti e il dubbio è instillato dalle tante e troppe gocce probatorie che colmano, come un vaso strabordante, la trama di un romanzo che si presenta come visionario ma pare tragga robusto sostegno dalla realtà. Notizie che Reali ricerca meticoloso in polverosi libri e internet, cerne, cuce e trasforma infine, in battute, drammaturgia, dialoghi, duelli di parole e di spade affilate.
Shakespeare per l'autore di questa pièce è Giovanni Florio, figlio di Michelangelo Florio, calvinista sfuggito al truce periodo della vergognosa inquisizione della chiesa per salvare il collo e la vita. All'epoca la Sicilia subiva il dominio della Spagna. Una delle tredici dominazioni della bella e ambita isola che tutti volevano possedere come una bella donna. Michelangelo è persona colta, un umanista che investe tutto quello che ha nei libri come un tesoro da custodire contro l'alluvione dell'ignoranza: studia a Venezia, Padova, Mantova; assorbe come una spugna di mare il pensiero dei grandi autori italiani e greci. Raggiunge in fretta Londra, ramingo, guardandosi sempre le spalle. Intanto cresce il figlio Giovanni o John (nell'astuta strategia mimetica), che scriverà insieme al padre e qui, il giovane siciliano, diventa precettore della lingua italiana a corte. L'Inghilterra è ormai protestante sotto il regno di regina Elisabetta. L'età dell'Oro è nel suo pieno splendore. Il Teatro Globe è pieno ogni sera, dal modesto parterre ai loggioni in alto.
Le origini messinesi di Shakespeare
La tesi delle origini messinesi è avallata da fini e seri accademici come Iuvara di Ustica, docente all'Università di Palermo; il Times pubblica un eloquente articolo. Naturalmente il New York Times, non certo l'omonimo inglese. Le prove sono tante e incontrovertibili. “Troppu trafficu 'ppi nenti” di Florio esce cinquant'anni prima la più nota “Molto rumore per nulla” e ne è la copia perfetta. Stessa trama, cambia la lingua. Shakespeare conosce la toponomastica di Messina, ambienta le sue storie in Italia come solo un italiano potrebbe fare, Venezia, Verona, conosce i costumi, i detti. Usa “Mizzica” espressione che solo un autoctono conosce. Ma poi perché un inglese dovrebbe ambientare la storia nell'anonima Messina. Ci sono, col dovuto rispetto, luoghi più fascinosi che avrebbero potuto ravvivare la fantasia di un annoiato romanziere, eccetto quella di chi vi è nato e trae dalla propria vita spunti originali per scrivere. Appigli pronti all'uso di realtà da mutare in versi e prosa. Vita vera e vissuta che va solo descritta. La madre di Florio si chiama Scrollalanza, che in inglese si traduce in “Shake the speare”. In molti sonetti il nome del Bardo appare col trattino. Qui Reali sposa l'altra teoria che Shakespeare era un attore e autore prestanome pagato da Florio per conservare questo l'anonimato. A dare credibilità sul palco alla tesi che stravolge per prima il mondo anglosassone e la loro proverbiale aplomb, è il Cast della commedia. Tutti convincenti innanzi la giuria. Qui, oltre ricordare e perorare la causa delle origini siciliane del più grande scrittore inglese (come dire che Dante o Pirandello sono londinesi), l'autore mette a confronto in un sottile gioco antropomorfo due bestie icona: la Volpe e il Leone.
Cervantes, la Volpe
Cervantes, qui, è il reduce impavido al quale hanno mozzato in un solo colpo netto la mano sinistra nel truce mercato della carne umana, e si nasconde abilmente dato che la Spagna lo cerca per mozzargli l'altra (la destra) perché ha creato disordini e violenze a palazzo di cui lui, dice, non ha ha colpe. Dunque l'ispanico è il guerriero impavido Cuor di Leone. Giovanni Florio con addosso tutta l'eredità letteraria del padre, è additato come la Volpe codarda che fugge, si nasconde, cerca il buio come un mantello che copre e protegge, è braccata: difende la pelle o la pelliccia che potrebbe finire su qualche bel collo aristocratico o regale. Lo scrittore spagnolo, in teatrale e simmetrica antitesi, è di nobili pensieri e rude di gesti; inveisce contro il damerino ben pettinato, vestito e profumato; scopre che ha davanti il Bardo e non gli perdona che non ha e nemmeno cerca il coraggio di firmare le sue meravigliose opere. Florio sa bene che quella palesata paternità equivale anche a firmare la sua morte perché in perenne fuga dai suoi instancabili e vigili persecutori.
Inoltre, verrebbe cacciato come precettore a corte e dalle famiglie nobiliari che non potrebbero accettare le sue origini italiane. Il dubbio atavico è tenersi la paura o la morte? Il padre Michelangelo, recluso con Giordano Bruno e adesso libero, ha visto gli orrori delle carceri e ne ha sentito le urla lancinanti delle torture: consegna al figlio il valore universale della poesia e della vita come dono e bene da preservare. Mera sopravvivenza come bisogno fisiologico, animale o comunque come missione per diffondere la verità e cultura.
In entrambi i casi serve rimanere vivi. Compromesso necessario. Il poeta non è un eroe. Non è codardia, è cautela per il canuto letterato. E' importante scrivere, avere idee o trarle dagli insegnamenti dei grandi filosofi, copiarle se occorre o tradurle, dispensare cultura e trasformare la lingua inglese, che vanta pochi vocaboli (solo ottomila) da rozzo e rudimentale idioma a lingua letterata. Il poeta, come figura generica, ha i giorni e le ore contate: i versi sono possenti e immortali. Eterni. Idea assunta anche da Pirandello che probabilmente ha sentito echi di Trinacria, dunque la sincera conterraneità quando ha letto il sedicente inglese.
Il giovane Florio, si ricordi, scrive il primo dizionario della storia Inglese-italiano. "L'onore è uno stemma da funerale" ribadirà Giovanni in un appunto intimo e cancellato, nascosto negli anfratti di libreria. Tra i tanti scaffali affollati di volumi. Cervantes impugna la spada e sfida l'altro in un duello di corpi e pensieri: Non si può scrivere se non si vive! La verità non vissuta non vale nulla per lo spagnolo. Per Florio quando la realtà si fa noiosa interviene mirabolante la dea fantasia. Effetto salvifico per ogni scrittore innanzi alla sua crisi da pagina bianca. Lo spagnolo è in cerca perenne di frasi, idee. Si rifugia nella follia perché in quell'antro sconfinato di buio pesto trova la sua agognata luce libera di poeta. Torna alla realtà: ogni occasione è buona per pensare, annotare idee, tramutare fatti i frasi, allora scova il metodo: una romanzo in rima sciolta che stupisce Florio abituato al contrario. Quella ricerca e disagio diventerà quell'immenso capolavoro noto come “Don Chisciotte della Mancia”, parodia di certi protocolli cavallereschi ai quali lo stesso Shakespeare dedica fiumi di parole. Nella contesa e rinuncia di cose e persone, c'è anche lei: l'amore e la passione per la stessa donna. E' un duello infinito di pensieri e parole tra giganti che in quel lontano loro presente, pensano solo di essere uomini mortali affannati a preparare al meglio l'eredità da lasciare al mondo come poi è stato.
Una battaglia di bravura
La scenografia è avvolgente. Il Teatro è un sito inusuale all'esterno e all'interno con un palco che si allunga come un peduncolo sino a dentro un lato della platea e il pubblico. Il regista non trascura quella penisola di tavole e ne sfrutta abilmente la forma irregolare e l'abbraccio, rincara piacevolmente la dose con dei drappi anticati e sudici sostenuti e sospesi da robuste corde di marinai che ricordano i velieri ispanici di cui il mediterraneo era saturo.
Il disegno luci è armonioso, ben calibrato. C'è calore e vita. Si usano delle proiezioni in un momento intimo che aiutano lo spettatore ad immaginare i viaggi del giovane Cervantes ed il delirio che covava tra vene e pelle. Caldi tramonti si stagliano alle spalle degli attori antagonisti. Ogni tanto il fumo acuisce l'atmosfera e introduce all'onirico. Le musiche sono giuste.
La recitazione dei due attori: Ruben Rigillo e Giuseppe Zeno è misurata, godibile. Intensa. E' una battaglia di bravura. Ottima dizione. Regge bene il confronto Serena Iansiti. Una perla, che dunque impreziosisce, è il cameo di Mariano Rigillo nel ruolo di Michelangelo Florio.
Reali scrive, dirige la commedia e ne compone le musiche. Un gran lavoro. A lui va il nostro plauso, ma eravamo già sazi e soddisfatti del suo contributo, non avremmo voluto vederlo anche sul palco inciampare nella lettura, peraltro, delle poche battute con la disinvoltura moderna dei suoi jeans e scarpe da ginnastica. I suoi vari interventi, che introducono alla storia altre raccordano i salti temporali dei personaggi, ci distraggono da una messinscena che crea, prima e dopo, la giusta suggestione. Sovrastruttura che non arricchisce ma toglie alla magia della commedia nella specie e del Teatro, alle sue poche regole cogenti. Si usa nel testo, troppo spesso “coglione” e “stronzo”, chissà se davvero nel 1600 ci si insultava già così? Anche qui ci è sembrato uno strappo temporale.
Spettacolo da vedere per godere di una bella serata di Teatro e per farsi la propria personale idea sulla peggiore truffa degli ultimi quattro secoli! Noi avalliamo l'arringa accorata di Reali e condanniamo l'aristocratica famiglia Penbroke per avere ricevuto in dono, custodito, anzi celato e mai fatto visionare i manoscritti di Shakespeare o meglio di Florio. Probabilmente lì, tra quell'inchiostro antico e di penna d'oca, la benedetta e maledetta firma, Giovanni, finalmente l'ha messa…
Info:
DAL 12 AL 17 FEBBRAIO
dal martedì al sabato ore 20.30
sabato e domenica ore 17.00
Athena
presenta
Shakespeare – Cervantes
LA VOLPE E IL LEONE
un mistero che dura da quattro secoli
con
Giuseppe Zeno – Ruben Rigillo
Serena Iansiti
e l’amichevole partecipazione di
Mariano Rigillo
scritto e diretto da
Stefano Reali