Antonio Latella è tornato a Prato a dirigere LA VALLE DELL’EDEN, sua ultima fatica registica in due parti, seguita al complesso lavoro di adattamento portato avanti da lui insieme a Linda Dalisi. Allo storico Teatro Metastasio di Prato (la cui fondazione ha curato la produzione insieme a Emilia Romagna Teatro Fondazione e Teatro Stabile dell’Umbria) ha preso vita il capolavoro di John Steinbeck ambientato nell’America reduce dalla guerra civile. Nell’ideale “giardino genealogico” delle famiglie Trask e Hamilton/Steinbeck una lunga e profonda riflessione sugli opposti e sull’umana capacità di discernimento.
Scena aperta, palcoscenico privo di quinte, macchina del teatro ben in vista, tre attori intorno ad un tavolo rivolti di spalle alla platea e un vuoto tra loro e noi accentuato dalla mancanza di almeno due file di poltroncine. Luci fisse, accese perennemente in scena e sul pubblico. Nessuno è autorizzato a sentirsi estraneo. Nessuno può ritenersi esente. Nessuna possibilità di appello. Nessuna.
Credenti e non, tutti siamo stati indirettamente cacciati da quel Paradiso terrestre che da allora è diventato la nostra più grande ambizione, per ognuno di noi in una forma diversa. Adam Trask decide di cercarlo in una idilliaca valle californiana, un Nuovo Mondo per lui che proviene dalle coste atlantiche colonizzate dai primi Padri pellegrini. Uomo profondamente legato alla terra, figlio di un reduce di guerra e fratello di Charles, più empatico e più vigoroso di lui, Adam sposa Cathy, la sua Eva, che a differenza della figura biblica ha un passato burrascoso e misterioso. Come la Genesi e soprattutto la tradizione raccontano della donna tentata dal serpente e causa del Peccato originale, così Cathy diventa la rovina della famiglia, tradendo il marito con il cognato, allontanando i due fratelli e dando alla luce due gemelli il cui padre non è certo. Caleb e Aaron, che fanno la loro comparsa nella seconda parte dello spettacolo, come i biblici Caino e Abele, sembrano rappresentare i figli di quel peccato, pietre generate da una madre che è essa stessa incarnazione dell’animale tentatore.
Così come nel mito di Prometeo, ripreso poi dalla tradizione romantica, la crudeltà della punizione consiste nel suo ripetersi ciclicamente, è sufficiente la comparsa della donna in scena per essere ripetutamente scacciati, noi con Adam, da quell’Eden. E dalla parete in legno che scende come una ghigliottina sugli oggetti di scena solo un angusto passaggio consente ai personaggi di spostarsi sui vari piani dell’azione. Una cesura netta che dalla prima alla seconda parte dello spettacolo si trasforma in una casa vera e propria che gli attori stessi si costruiscono. Perché sono il nostro diritto a scegliere e l’umana capacità di sbagliare le nostre scelte ad innalzare delle barriere di incomprensione e di prigionia. Una casa che diventa istituzione, trappola, bordello, una casa porta dell’Ade, diremmo: una casa come quella in cui Clitemnestra, custode della soglia, persegue i suoi delitti e poi ne paga il fio. Tutta l’operazione, specialmente questa seconda parte, sembra sposarsi fortemente con il grande lavoro di Antonio Latella sul mito degli Atridi, il monumentale Ritratti di famiglia. “C’è qualcosa di oscuro in questa valle. Non so cosa sia, ma lo sento. C’è un’oscura violenza in questa valle”, dice Hamilton, nel testo. E questa frase echeggia già irresistibilmente la maledizione della stirpe degli Atridi, che qui colpisce invece la famiglia Trask: il discorso drammaturgico, come avviene nella tragedia classica, si articola irresistibilmente in rapporti genealogici, attraverso i quali la figura dei progenitori non scompare, ma anzi si presenta in sempre nuove modificazioni nei suoi discendenti, durante il corso del tempo: e la colpa e la maledizione non cessano mai.
Su una forma brechtiana di base, che offre la parola senza preoccuparsi di introdurla in un intreccio, di spettacolarizzarla, si innesta una recitazione realistica, cinematografica, immediata. All’uso filmico, realistico, di alcuni gesti (versare il caffè, il whisky, sorseggiarlo) si contrappongono gesti, segni oscuri, simbolici, polisemici (togliersi le scarpe, rimetterle, girare intorno al tavolo senza alcun bisogno di farlo). Gesti che si accompagnano ad un’alternanza ripetuta e quasi regolare di silenzi e di suoni laceranti; gli uni altrettanto assordanti rispetto agli altri a creare una dicotomia continua fatta di doppi e di opposti. I grigi quasi monocromatici della prima parte, ad eccezione dello stesso narratore, si colorano di morbidi pastello dopo la nascita dei gemelli con una scelta coloristica dei costumi irrealistica ed incantevole.
Timshel, tu puoi: Dio dona la libertà, più che promettere la via e la felicità. Possiamo tutto, redenzione e dannazione, e anche, naturalmente, l’abitare in una realtà variegata dove qualcosa e il suo contrario coesistono. Così, nella casa trappola, per un istante, viene inquadrata dalla luce sapiente Cathy/Kate con una sapienza compositiva così eterna e fuori dal tempo da rendere questo monstrum, questa madre di pietre, un’immagine che richiama intensamente l’icasticità di Bill Viola, e, prima ancora, dei capolavori del Rinascimento. Con la stessa ambivalenza si possono anche interpretare le frasi del testo laddove la “normalità” appare mostruosa agli occhi di un mostro ma allo stesso tempo la sua “normalità” appare mostruosa ai nostri (“Per un mostro la normalità è mostruosa”). Senza peraltro mai essere sicuri in quale categoria possiamo essere inclusi.
Molteplici i ruoli in cui gli attori sul palcoscenico si sono calati, complicando l’intreccio. I personaggi della famiglia Trask sono stati affidati a Christian La Rosa (emozionale nei ruoli di Charles e Caleb), Emiliano Masala (efficace nei ruoli di Cyrus e Aaron), Annibale Pavone (ieratico nel ruolo di Adam Trask). Elemento destabilizzante nonché chiave di volta la convincente interpretazione di Elisabetta Valgoi nel ruolo della glaciale e implacabile Cathy/Kate. Infine nel ruolo dei nostri Virgilio si trovano Michele Di Mauro (un incisivo Samuel Hamilton), Massimiliano Speziani (un ironico e decisivo Lee) e Candida Nieri (la morbida e suadente voce dell’autore).
“[…] maledetto sia il suolo per causa tua! / Con dolore ne trarrai il cibo / per tutti i giorni della tua vita”. Citano la Genesi i continui riferimenti alla terra disseminati lungo tutta la durata dello spettacolo (383 minuti totali): scarpe, fattoria, rabdomanzia, il percuotere le assi del palcoscenico con i piedi nudi non smettono di ricordarci che non c’è Eden per una nuova Genesi. Il peccato originale permea l’anima e ci rende raminghi e fuggiaschi come Caino punito per l’uccisione del fratello. Il complesso e mastodontico adattamento di Latella/Dalisi esalta la biblicità di Steinbeck a tal punto da richiedere allo spettatore un’esegesi talvolta troppo profonda nel tentativo di restituire una parola creatrice, una parola visiva e viva che si forgia a tutto tondo grazie ai silenzi che la definiscono e che ci permettono di circumnavigarla. Mondi a più livelli che si incastrano e si confondono in una polisemia che stimola la nostra capacità di interpretazione lasciandoci con la consapevolezza che l’inevitabilità del male è fonte primaria di un bene che non è Paradiso terrestre ma Eden personale nel giardino genealogico dell’umanità.
Info:
LA VALLE DELL’EDEN
di John Steinbeck
traduzione Maria Baiocchi e Anna Tagliavini
adattamento Linda Dalisi e Antonio Latella
regia Antonio Latella
con (in ordine alfabetico) Michele Di Mauro, Christian La Rosa, Emiliano Masala, Candida Nieri, Annibale Pavone, Massimiliano Speziani, Elisabetta Valgoi
scene Giuseppe Stellato
costumi Simona D’Amico
luci Simone De Angelis
musiche e suono Franco Visioli
assistente al progetto artistico Brunella Giolivo
assistente alla regia volontario Paolo Costantini
produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione, Teatro Metastasio di Prato, Teatro Stabile dell’Umbria
Teatro Metastasio, Prato
21 novembre 2019 (I parte) – 24 novembre 2019 (II parte)