Uno scroscio di applausi, gli attori in scena in piedi, le loro ultime parole “Non lasciateci soli, non lasciateci sull’Isola” l’applauso, tutto il pubblico in piedi commosso, “noi”, “loro”, due frammenti di comunità un tempo unito, e ora diviso da un palco che separa come la grata di una cella, che unisce come un ponte ancorato a sguardi condivisi, illuminati dalla stessa bellezza. Si può iniziare dai saluti finali a recensire uno spettacolo? A recensire la Tempesta diretta da Elisa Taddei regista dal 2004 della Compagnia di Sollicciano e organizzata da Murmuris, in scena in carcere, il 27 e il 28 giugno? Forse no. Ma se vogliamo partire dall’inizio si devono descrivere lapilli di emozioni che ci erompono addosso, passando il primo cancello del carcere: manca l’aria dal caldo che fa, la terra sembra ribollire sotto i piedi, fremere di rumori ovattati e sotterranei; mentre passiamo in mezzo a file di guardiani, un colpo d’occhio coglie sullo sfondo grate cieche come ferite carsiche, che ingoiano e nascondono, da cui sventolano lenzuoli bianchi: uno spicchio della struttura da cui si intravedono le celle, quel “niente” celato da sbarre arrugginite, ma animato da voci di vite “sospese” nell’attesa di una redenzione. Tutto ciò che vedremo qui andrà contestualizzato nel luogo in cui avviene, il carcere. Non si può prescindere da questo.
a cura di Sandra Balsimelli con Marinella Veltroni e Silvia Boccellari, laboratorio critica teatrale Gufetto
La Tempesta di Shakespeare è perfetta per l’isola Sollicciano, spazio di prigionia che, come un incantesimo o un rito antico, trasforma l’emarginazione e la diversità in occasione di emancipazione e di espiazione; sponda di naufragio, approdare al quale può essere vita o morte, come ripete ossessivo il mantra collettivo dei nostri orrori quotidiani, popolati di sbarchi, fuggiaschi, confini sempre più instabili, tra chi è “dentro” e chi è “fuori”.Tre buffi narratori, musicisti dal vivo, simpatici commentatori fuori campo, tra un colpo alle percussioni e un soffio delicato nel flauto traverso, ci portano dentro l’atmosfera magica e ovattata della commedia shakespeariana della maturità e del perdono. Prospero attira nell’isola i suoi nemici di un tempo, piega ai suoi voleri gli spiriti di cielo e terra, i bravissimi Ariel e Calibano, perché compiano un sortilegio capace di indurre tutti i naufraghi a rivedere i loro passati errori e a riparare la frattura, ristabilire la pace, suggellata dall’amore tra Ferdinando e Miranda, figlia di Prospero. L’isola è descritta come una prigione incantata. “Io un tempo ero re di me stesso!” grida Calibano, attraverso la sua maschera tribale che evoca la memoria ferita di ogni popolo nativo, violato dall’arroganza di un invasore.
Dalla trappola che incatena sia servo che padrone si esce solo grazie al perdono ma, attenzione, “Non c’è perdono senza pentimento” ricorda Prospero: solo questo percorso di accettazione della verità su di sé permetterà a tutti di riconquistare la libertà. Gli attori giocano ironici con le loro maschere, sia quelle fittizie dei loro personaggi, da cui a tratti si staccano per dialogare col pubblico, sia da quelle materiali, molto affascinanti, maschere da giungla primordiale, nel cui mood ci immergono, fin dall’inizio, teli azzurri dalle liquide increspature, rami di giunco ed erbe lacustri, rumori inquietanti e ipnotici eseguiti in scena dai musici narratori. Uomini e spiriti, creature di terra e creature eteree, tutti perseguono la verità che rende liberi, in un affascinante gioco delle parti che corteggia l’utopia, nel sogno di Gonzalo, evocando un mondo edenico dove ognuno sia libero di andare ovunque, un mondo senza gerarchie né corruzione, un mondo possibile, chissà, in un oltre sempre vagheggiato. Sorriso, commozione, respiro corto all’idea che questa favola magica parla di una realtà dalle tinte ben più fosche a cui i muri di cemento logoro ci rimanda ogni istante, stupore per la straordinaria luminosità, leggerezza, ironia degli attori in scena, esseri umani capaci di bellezza, ben oltre lo stereotipo in cui li detiene la loro etichetta sociale. In una serata così si tocca con mano il potere rigenerante dell’arte quando promuove fiducia nel buono nell’uomo e, per contrasto, il potere annichilente del giudizio e della punizione. La realtà è quella che è: muri di cemento sporco, uno sguardo e un abbraccio rubato tra un familiare e un carcerato dietro le quinte, una standing ovation condivisa tra chi sta “fuori” e chi sta ”dentro”. E le due metà vanno prese insieme, non c’è niente da fare, almeno non ancora. Si può pensare dentro di sé mentre si esce da teatro “non vi lasciamo sull’isola, penseremo a voi con rispetto, porteremo un po’ dell’ombra azzurra di questo palco nelle nostre case, nei nostri discorsi, nella nostra consapevolezza”; si può, anzi si deve, ringraziare il talento di chi ha reso possibile sbriciolare l’arte in un luogo che ispira disperazione e angoscia. Si, la bellezza può salvare il mondo e dove c’è bellezza c’è la dignità dell’uomo tutta intera, da cui nessuna deviazione di percorso, qualunque ne sia la gravità o la causa, può mai del tutto allontanarlo.
Info
LA TEMPESTA
Regia Elisa Taddei
Aiuto regia Luana Gramegna, Luana Ranallo
Scenografie Francesco Givone con Marwen Bjaoui, Alessandro Nastasi, Davide Noventa
e la collaborazione di Gisella Butera
Costumi Giulia Bigioli
Luci Andrea Narese
Video Corrado Ravazzini
Foto Alessandra Cinquemani
Organizzazione Murmuris
Con Ramzi Baroumi, Daniele Biondi, Marwen Bjaoui, Ibrahim Bjaoui, Fabio Borri, Stanislao Civaro, Daniel Ciungu, Felipe Da Silva, Ioan Dragan, Ahmed Driouich, Marco Franci, Arturo Gilberti, Susannah Iheme, Mattia Liò, Adil Maich, Daria Menichetti, Monica Santoro, David Satariano, Zef Shullani
Si ringraziano Direttore di Sollicciano, la Polizia Penitenziaria, l’Area Educativa, la Segreteria Educatori
Un ringraziamento speciale a Lucia Bindi, Elisa Bonini, Francesco Migliorini e gli agenti del Reparto Attività e della Mof
Casa Circondariale di Sollicciano – Firenze
28 giugno 2019