LA LEZIONE @ Teatro Lo Spazio: come invecchiare un classico (?)

Dal 14 al 19 febbraio, in scena al Teatro Lo Spazio, LA LEZIONE, di Eugène Ionesco, traduzione di Gian Renzo Morteo, con Fabio Galadini, Erika Rotondaro, Simona Meola, regia di Fabio Galadini.

L’ambiente, destinato ad accogliere il dramma comico di Eugène Ionesco: “LA LEZIONE”, descrive un interno: la sala in cui il professore accoglie ed educa le sue allieve o, forse, la sua unica allieva, destinata a morire quaranta volte all’interno di un’azione che ciclicamente e inesorabilmente deve ripetersi. Salone connotato da un tavolino centrale, due sedie di cui una atterrata porta i segni di colluttazione assieme a dei libri e pezzetti di carta stracciata gettati sul pavimento, un mobile-libreria in fondo a destra e una cornice sbieca e dorata pendente dall’alto sulla sinistra, svuotata della tela che dovrebbe contenere, magrittiana. Una tonalità beige avvolge l’intero spazio e descrive perfettamente, più in generale, la temperatura complessiva della messa in scena.

Appartenente al “genere” nominato “Teatro dell’assurdo”, sviluppatosi come reazione al periodo bellico e ai totalitarismi, “LA LEZIONE” è un testo che affronta la problematica questione del linguaggio. Linguaggio come luogo in cui si è sfogata la violenza del potere o strumento che ha reso possibile tale sfogo. Anche i tre personaggi che lo pronunciano: il professore – Fabio Galadini (anche regista), l’allieva – Erika Rotondaro e Maria la cameriera – Simona Meola, sono dialetticamente mossi da dinamiche di potere che, avvenendo nel linguaggio, conducono al delitto, “la filologia conduce al peggio”, all’omicidio erotico dell’allieva destinato a reiterarsi all’infinito. Se in un primo momento è l’allieva a prevalere sul professore attraverso un atteggiamento fisico e verbale che coniuga innocenza e malizia, in un secondo momento, proprio attraverso la lezione: lo studio dell’aritmetica prima e della filologia, delle lingue e della linguistica poi, il potere passa nelle mani del professore che, all’apice del climax, sulla parola “coltello”, brandendo in mano l’oggetto invisibile, iconograficamente fallico, penetra le carni della sua allieva, uccidendola. Maria, la cameriera, è testimone, ambigua e complice: prima tenta di evitare il peggio, poi aiuta il professore a coprire il misfatto, rendendolo dipendente dal suo operato, sottomettendolo, ma continuando comunque ad aprire la porta ed accogliere l’allieva, destinata all’inevitabile morte.

Questo è Ionesco. A questo si limita la regia. Per giunta non è lo Ionesco de “La cantatrice calva”, è lo Ionesco de “La lezione”. Nella forma scenica costruita da Fabio Galadini non c’è ricerca, non c’è sperimentazione, risulta inattualizzabile. Il testo, scritto nel 1951 e trasposto alla lettera nel 2017, è destinato a perdere la sua carica sovversiva. Affrontando la questione del linguaggio in questi termini, Ionesco si era posto come un pioniere d’avanguardia. Da allora di avanguardie se ne sono succedute tante, almeno altre tre generazioni. La questione del linguaggio ha conosciuto innumerevoli altre stagioni. Non solo è stato denunciato, consolidato il fatto che è strumento di potere. Il linguaggio è già stato decostruito, il significante ampiamente scollato dal significato, la parola ridotta a phonè e moltiplicata, sono già stati sbrandellati i campi semantici, distrutta la centralità dell’io, dell’identità e persino della soggettività, si è arrivati all’utopia del teatro senza l’attore. La guerra al linguaggio è stata già combattuta. Si è fatta già strage della parola. Il linguaggio dei social, l’analfabetismo diffuso, l’esiguo ventaglio lessicale a disposizione dei giovani, soprattutto, è sintomo di questo depotenziamento della parola. Oggi il discorso parlato dai politici, da coloro che governano e che detengono il potere è efficace non perché faccia propria una retorica seducente, al contrario, perché essendo inconsistente, qualunquista, banale e vago rintontisce attraverso il caos, il disorientamento, la mancanza di una grammatica di riferimento. Collocare le parole all’interno di un orizzonte di senso, non implica e non deve implicare la stabilizzazione di un significato. Poter “collocare” concederebbe alle persone l’acquisizione di una postazione specifica e critica rispetto a quel dato contesto particolare. Essendoci già stata negata la possibilità di utilizzare il linguaggio, in quanto strumento di un potere accentratore dominante, il reale bisogno contingente e contemporaneo è quello di riottenere diritto d’espressione, ricostruire degli strumenti linguistici, lontani sì dalle briglie del potere, ma necessari alla libertà di pensiero il quale avviene nel linguaggio non fuori da esso.

Ionesco, ormai, è un classico. Tanto quanto l’ “Antigone”, un esempio tra tanti, nonostante parli del conflitto tra la legge degli dei e quella degli uomini, può e deve rivivere sui palcoscenici contemporanei per la sua potenza atemporale e per la nostra capacità d’astrazione relativamente ai suoi riferimenti contingenti, così mettere in scena “LA LEZIONE” di Ionesco implica un approccio critico in grado di agevolare quell’astrazione, concedendo al testo e all’autore la possibilità di attuare la propria potenziale universalità nel nostro presente o in qualsiasi altro. La messa in scena di Fabio Galadini è riuscita ad invecchiare un classico. Ossimoro poco felice. Opportunità sprecata. La svastica emersa dalla sottana della cameriera in chiosa, ha avuto quel sapore di rievocazione storica tanto stomachevole per gli spettatori che dal teatro pretendono uno schiaffo alla coscienza.

Un altro fatto da tenere in considerazione è da un lato la cattiva conoscenza di questo particolare autore e “genere” da parte del pubblico medio (ma pure da parte della stessa attrice Erika Rotondaro, lo afferma in un’intervista!), dall’altro la poca accessibilità delle questioni relative al linguaggio, che hanno coinvolto assiduamente, circa dalla seconda metà del secolo scorso, svariate discipline teorico-filosofico-artistiche.

Ammirevole la cura riposta nella preparazione attoriale dalla regia, purtroppo imbrigliata in un didascalismo anacronistico che ha fatto avvertire nitidamente la datazione di un testo che pretende, per la sua genialità, di essere scollato dall’accidente per librarsi al di sopra del tempo.Commovente la dedica finale ad Alessandro Fersen, uomo, filosofo, pensatore e artista, che vivendo a pieno nel suo tempo sa essere del nostro e di quello che verrà.

Visto il 14 febbraio 2017 al teatro lo Spazio

Info

LA LEZIONE
Traduzione di Gian Renzo Morteo
regia Fabio Galadini
aiuto regia Francesco Guglielmi
con Fabio Galadini, Erika Rotondaro, Simona Meola
scene e costumi Teatri Soratte

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