La pièce dell’Associazione culturale Les Moustaches, dopo aver ricevuto vari riconoscimenti tra cui il premio Fersen come miglior spettacolo e il premio stampa al Fringe Festival 2020, ha aperto la III edizione del festival Ex-temporaneo, organizzato dal Comune di Prato negli spazi di Officina Giovani (fino al 10 dicembre con ingresso gratuito su prenotazione). La storia del ragazzo sovrappeso destinato a fare il contadino ma col sogno di diventare ballerino e vivere liberamente la propria omosessualità fuori dalla grettezza della provincia, ha divertito e convinto il pubblico, emozionandolo a tratti. Sul palco Francesco Giordano, Giacomo Bottoni e Antonio Orlando rispettivamente nei panni di Ciccio Speranza, del padre e del fratello del ragazzo.
LA STORIA DELLA VITA DI CICCIO SPERANZA
E’ bene dirlo subito: nella drammaturgia di Alberto Fumagalli, regista insieme a Ludovica D’auria, non c’è in fondo niente di non visto. In una campagna non ben precisata una famiglia è composta da un padre e due figli che hanno perso la madre in giovane età. Il destino dei due ragazzi è di restare nell’azienda di famiglia a coltivare la terra ed allevare animali perché la città, con la sua frenesia e il suo inquinamento, è insidiosa e malefica. Un futuro fatto di sveglia all’alba, mungitura, raccolta di frutti e di letame, che non lascia scampo e soprattutto non lascia spazio a nessuna speranza di riscatto, sociale e morale. Ciccio però non ci sta: dentro al suo cassetto c’è un sogno oramai diventato troppo ingombrante, desideroso di spazio e di soddisfazione. Lui vuole diventare ballerino e la sua stazza, altrettanto ingombrante, non lo frena nel coltivare questa sua aspirazione. Riuscire però a stravolgere la grettezza mentale e spirituale della sua famiglia, o almeno di quella parte rimasta, è tutt’altro che semplice e alla fine…No spoiler!
LA SPERIMENTAZIONE LINGUISTICA DELLA STORIA DI CICCIO SPERANZA
Pur partendo dal finale per parlare di questo spettacolo, preferiamo non svelarne il contenuto anche se non abbiamo assistito ad una prima rappresentazione. Però proprio quell’immagine malinconica di Ciccio, dopo che il personaggio ci aveva già divertiti e anche un po’ stupiti con i suoi sinuosi movimenti a tempo di musica nel corso della pièce, ci permette di leggere in chiave poetica la drammaturgia. Badate bene: non stiamo parlando di poesia alta, lirica come una canzone petrarchesca, ma di una certa poesia in dialetto che si tramanda oralmente di generazione in generazione tra le strade del paese. Non per questo dobbiamo però considerarla meno potente, a partire da un linguaggio, quello dello spettacolo appunto, che è sperimentazione. Un esperanto che sa di spagnolo e di dialetto siciliano con sfumature di veneto e di altri dialetti del nord (forse anche bergamasco, vista la città d’origine della compagnia), una lingua alla quale inizialmente si fa fatica ad abituarsi ma che diventa quasi familiare dopo le prime battute. Come nella poesia popolare, la potenza del suono è significante e la comprensione del lessico diventa talvolta superflua perché ogni sillaba sembra farsi immagine davanti ai nostri occhi. Proprio qui ad Officina Giovani abbiamo potuto assistere al miracolo della lingua che si fa figurativa, che prende forma grazie agli attori sul palco.
DALLA GRETTEZZA IL MESSAGGIO UNIVERSALE DI CICCIO SPERANZA
Come dicevamo, la trama non è innovativa e può suonare come la classica storia del gay che cerca di riscattarsi in un contesto maschilista e paternalistico, prigione per ogni tipo di ambizione. A prima vista può apparire anche una trama ruffiana perché strizza l’occhio alla caricatura, con i personaggi che sembrano caratteri: il padre padrone, ignorante e dalle scarpe grosse (ma senza cervello fino), costretto a soffocare ogni velleità di sentimento, tranne che con l’anima della moglie morta; il fratello di Ciccio, Dennis, un po’ imbranato e tonto, marchiato dai compaesani come lo scemo di paese, altrettanto bloccato nell’esprimere i propri sentimenti per la ragazza che lo agita e lo emoziona e quindi destinato a restare solo a muovere cassette di frutta, perennemente presenti sul palco. Lo stesso Ciccio, con il suo body e il suo tutù, con la sua timidezza che a tratti si sfoga quasi istericamente, sembra richiamare lo stereotipo di genere. A nostro parere serve però guardare oltre, come il protagonista.
“Perché un uovo deve finire in frittata?” Nella sua genuina ingenuità, la battuta di Ciccio racchiude il senso di un messaggio universale che rifiuta la categorizzazione e l’omogeneizzazione sociali in chiave individualistica. Ciò non significa però la chiusura del singolo nei confronti dell’umanità circostante, come a volte è stato interpretato il messaggio: il diritto ad arrogarsi diritti che inaspriscono i conflitti e impoveriscono il confronto. L’opportunità di trovare il proprio posto nel mondo, che per Ciccio è sinonimo di città, quella tanto avversata dal padre, in fondo spaventato dal cambiamento e rassicurato dalla conservazione dello status quo, apre invece ad una realizzazione personale che è presupposto fondamentale per l’interazione e per l’integrazione in una società civile. Purtroppo considerazioni come questa appaiono ripetitive nel XXI secolo ma i recenti accadimenti politici e giudiziari del nostro Paese, e non solo, ci convincono che il messaggio universale di Ciccio è urgente. Se anche Gesù, “uomo di larghe vedute”, non si arrabbia davanti ai gusti sessuali e alle ambizioni inconsuete del protagonista, perché l’uomo ancora non riesce a fare altrettanto?
LA NATURA VIGNETTISTICA E LA RICETTA REGISTICA: PERCHE’ CI E’ PIACIUTO LO SPETTACOLO
Il ritmo dello spettacolo è alternato, con passaggi spesso repentini tra la dinamicità dei movimenti, la prontezza nello scambio delle battute e i silenzi più riflessivi che trovano poi sfogo nei momenti di dialogo immaginario con la moglie/madre, inscenata, senza troppa fantasia a dire il vero, da un cono di luce dall’alto in primo piano. Il susseguirsi delle scene e delle situazioni assume il carattere di una striscia d’animazione nella quale i silenzi scandiscono il passaggio da una vignetta all’altra e l’essenzialità dei movimenti e delle azioni (la pigiatura dell’uva, l’amplesso con la pecora, le partite di morra) richiamano una grafica essenziale, fatta di pochi colori e linee semplici. Solo il rosa del body di Ciccio e la sinuosità del suo corpo danzante contravvengono a questa regolarità e rompono lo schema geometricamente razionale, addirittura primitivo, della drammaturgia.
In un immaginario dialogo con il pezzo pubblicato quasi due anni fa, anche noi non riteniamo particolarmente innovativi né il tema né la drammaturgia in sé ma crediamo convintamente che la ricetta drammaturgica e registica nel complesso funzioni, sostenendosi sulla curiosa sperimentazione linguistica, sulle prestazioni attoriali (tutte ugualmente encomiabili nella nostra rappresentazione) e sulla capacità di resistere ad ogni scontata velleità di lieto fine (oltre non diciamo, però). Tra gli intellettualismi drammatici, a tratti tragici, in cui si può facilmente incappare quando si parla di omofobia, e la comicità alla Zelig, fatta spesso di battute dal riso vuoto, pensiamo che La difficilissima storia della vita di Ciccio Speranza rappresenti una terza strada con spunti che apprezziamo e per i quali consigliamo la visione dello spettacolo.
LA DIFFICILISSIMA STORIA DELLA VITA DI CICCIO SPERANZA
drammaturgia Alberto Fumagalli
regia Ludovica D’Auria e Alberto Fumagalli
con Giacomo Bottoni, Francesco Giordano, Antonio Orlando
costumi Giulio Morini
foto Serena Albano
Officina Giovani, Prato
venerdì 20 novembre 2021