Teatri di Vita porta in scena a Bologna, a pochi giorni dalla Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne (25 novembre), LA CHIAVE DELL’ASCENSORE, testo di Agota Kristóf sul tema della violenza domestica e sociale ai danni della donna, qui proposto nell’interpretazione intensa e struggente di Anna Paola Vellaccio, allestimento e regia di Fabrizio Arcuri, Premio della critica 2010 e, nel 2011, Premio Ubu e Premio Hystrio alla regia. Una coproduzione Florian Metateatro / Accademia degli Artefatti.
Agota Kristóf, nata a Csikvánd (Ungheria) nel 1935, fu costretta a fuggire in Svizzera nel ‘56 in seguito al soffocamento della rivolta popolare contro l’invasione sovietica, e lì ha dedicato la sua vita e la sua penna al racconto nudo e crudo, mai velato, del male della società e della voglia di non arrendersi: «Bisogna continuare a scrivere. Anche quando non interessa a nessuno. Anche quando si ha l’impressione che non interesserà mai a nessuno» (A. Kristóf, L’analfabeta. Racconto autobiografico, 2005).
La chiave dell’ascensore (1977) è un racconto di violenza domestica e degli esiti estremi della sopraffazione fisica e psicologica quando amore e rispetto, in un’escalation dolente e tragica, cedono il passo al bisogno di possesso dell’altro. Protagonista una donna ridotta all’isolamento dal marito, prigioniera in una rocca lontana dalla quale l’unica via di fuga è un ascensore, di cui lui solo possiede la chiave. Nella bramosia di controllo totale, con l’aiuto di un medico compiacente, la sottopone a una serie di mutilazioni fisiche e sensoriali progressive, togliendole tutto ma mai, fino all’ultimo, la forza di gridare il suo dolore e la sua storia al mondo. Ed è questo il messaggio profondo del testo: che la voce di chi è vittima di violenza è inarrestabile, anche quando ormai sembra che tutto sia perduto. La denuncia, l’apertura verso il fuori, la comunicazione dei soprusi sono l’arma più potente, sempre, per uscire dalla morsa della violenza.
Tutta la pièce è giocata sull’intreccio di sonorità, luce e fisicità attorica. Musica e voce spesso si compenetrano, creando un’atmosfera di sospensione trasognata, inquieta e perturbante. In particolare, la vocalità di Anna Paola Vellaccio è di un’intensità che mette i brividi, vira nel giro di un istante dalla narrazione, alla cantilena dolente, al grido straziato, e ricalca con la voce il senso del racconto fino a punte onomatopeiche che sono pura poesia vocale. Colpisce nel segno anche la fisicità intensa e solipsistica della protagonista, che trasmette con potenza tutto il sentire di dolore dato dall’isolamento e dalla castrazione programmatica di ogni espressione del desiderio di evasione e libertà.
Anche la scenografia contribuisce a evocare con forza questa condizione di isolamento forzato e di estraniamento dal mondo: lo spazio scenico non è altro che un muro di luce privo di profondità, contro il quale si staglia, solitaria e dolente, la figura della protagonista. Pochi elementi fanno la loro comparsa graduale in scena (un braccio maschile che si sporge dalle quinte, un mazzo di fiori, una siringa), per poi subito abbandonarla, a eccezione di una sedia a rotelle, che resta fino alla fine e assurge al ruolo di memento. L’intero spettacolo contribuisce a creare un continuo gioco di contrapposizioni tra spazio del dentro, la rocca-prigione, e spazio del fuori, il bosco e la città, abitato anche dallo stesso spettatore. Avvolto in una nebbia che fin dall’inizio lo chiama a relazionarsi con il dentro ben più che come mero osservatore, è sottoposto allo sguardo e al richiamo supplicante della donna, che lo guarda come si guarderebbe da una finestra a un mondo bramato ma irraggiungibile. Al suo corpo, forse, ma non certo alle sue urla strazianti di denuncia, che trapassano lo spazio e lo spettatore, chiamandolo a prenderle su di sé, a esserne testimone.
Il grande valore dello spettacolo, oltre che nella indubbia qualità artistica, sta anche nella sua capacità di manifestare ciò che normalmente resta nell’ombra, ovvero la violenza nascosta nell’intimità delle mura domestiche. Grazie all’iperbole della mutilazione, riesce a tradurre con potenza e svelare i meccanismi perversi, sottili e facilmente invisibili di quella violenza che mira a distruggere ogni forma di sentire della vittima, per annullarla e renderla succube. Infine, con il rivolgersi della protagonista al fuori e allo spettatore, ci ricorda anche il nostro ruolo come collettività: perché uscire dalla violenza è possibile solo comunicandola, ma sempre nella misura in cui il grido di aiuto della vittima trova un orecchio pronto ad ascoltarlo e la sua mano tesa un’altra mano d’aiuto pronta ad afferrarla.
Info:
LA CHIAVE DELL'ASCENSORE
di AGOTA KRISTÓF
traduzione di ELISABETTA RASY
con ANNA PAOLA VELLACCIO
allestimento e regia FABRIZIO ARCURI
assistente in scena EDOARDO DE PICCOLI
assistente alla regia FRANCESCA ZERILLI
cura GIULIA BASEL
assistente alla produzione MARILISA D’AMICO
foto di scena ROBERTA VERZELLA , TIZIANO IONTA
grafica ANTONIO STELLA
una coproduzione FLORIAN METATEATRO / ACCADEMIA DEGLI ARTEFATTI
TEATRI DI VITA
venerdì 30 novembre 2018, ore 21:00
sabato 1 dicembre 2018, ore 20:00
domenica 2 dicembre 2018, ore 17:00