Nata come studio preparatorio per la scrittura del “Vangelo secondo Matteo” di Pier Paolo Pasolini (Bologna 1922 – Roma 1970) e poi divenuta un episodio del film “Ro.Go.Pa.G.”(con le regie di Rossellini, Godard, Pasolini e Gregoretti), “La ricotta” (1964) – in scena fino al 4 dicembre 2016 nell’accogliente Spazio Banterle, sito nel centro pulsante di Milano – racconta la commovente storia di Stracci, un poveraccio che impersona il ‘buon ladrone’.
Il regista Antonello Fassari la narra attraverso un dittico: nella prima parte in veste di attore mette fedelmente in scena con l’accompagnamento musicale di Sergio Mascagni il testo pasoliniano e nella seconda è proiettato il cortometraggio di Pasolini (28 minuti).
In una desolata periferia romana si sta girando un film sulla Passione di Cristo al cui interno è presente il ‘buon ladrone’ insieme a un’umanità varia, variegata e dolente per i piccoli drammi che caratterizzano la vita di ciascuno, ignoti agli altri quasi che i legami mentre si gira un film, come del resto nel quotidiano, siano per loro natura epidermici e superficiali, se non limitati a uno sfottò formale.
Il sacro viene declinato attraverso varie sfumature rappresentando con poche pennellate una forte contrapposizione tra sottoproletariato e borghesia, con vari echi pittorici che rimandano a grandi artisti del passato: una lettura del sacro che a Pasolini vale la censura e l’accusa di blasfemia.
Il personaggio del regista interpretato da Orson Welles pare un deus ex machina isolato in un suo mondo e assente, una sorta di Giove arroccato nel suo Olimpo e disponibile a scendere una tantum sul pianeta del set – un carrozzone cinematografico molto simile a una corte dei miracoli – e comunque circondato da una serie di aiuti non così professionali.
Un’analisi incisiva e spietata – mal tollerata dalla società perbenista dell’epoca pronta a scandalizzarsi per la violazione delle forme e non per l’esistenza di problemi reali (oggi non è forse anche peggio pur essendoci una maggiore se non assoluta libertà di linguaggio?) come la mancanza di rapporti sociali, l’indigenza e una fame quasi atavica allora riguardante una buona parte della popolazione: esperienza quest’ultima sconosciuta, incomprensibile e del tutto nuova per molti giovani di oggi incapaci a volte di reggere alcune ore di lezione a scuola senza ricorrere a quelle terribili merendine adescanti, distribuite in ogni dove.
Così la nostra comparsa, rosa dai morsi della fame per avere ceduto il proprio cestino del pranzo alla sua numerosa famiglia, vive tra l’indifferenza degli altri un vero Calvario raccontato con toni pacati, ma incisivi e taglienti in un misto tra italiano e dialetto romanesco dall’attore romano Antonello Fassari – che calca la scena dai tempi del diploma nel 1975 all’Accademia Silvio D’Amico – capace di trasmettere indifferenza ed emozioni così come farà poco dopo la breve pellicola che tra ironia e dramma descrive come eravamo e… come siamo.