L’IMBROGLIETTO @ Teatro Studio Uno: Guitti, affamati e straccioni

Fino a domenica 15 gennaio, in scena al Teatro Studio Uno, L’IMBROGLIETTO, testo e regia di Niccolò Matcovich, già presentato e premiato come corto teatrale.

La penombra avvolge lo spazio scenico lasciando intravedere, al centro, due sedie impagliate su cui siede ricurva e immobile una coppia di clowns o più probabilmente due immagini dello stesso clown, complementari, com’è complementare il segno bianco che trucca i loro volti. Sulla destra, avanti, in proscenio, un piccolo tavolino tondo sostiene un Mackbook Pro dalla mela illuminata, vestito con delle etichette esplicative: “CHE FAMO?”, “NDO ANNAMO?”, “CHI SEMO?”. Una voce femminile, elettronica, dà avvio all’azione scenica. È il computer a parlare, lanciandosi in un esilarante discorso sul teatro, sui suoi vizi e indecenze, sulle dinamiche insensate dei rapporti di potere e prepotenza che lo governano.
Emerge subito, con forza, la meravigliosa efficacia e competenza della scrittura di Niccolò Matcovich, pure regista dello spettacolo, che per l’occasione inventa addirittura una nuova lingua da mettere in bocca ai due attori Livia Antonelli-Karl e Valerio Puppo-Stadt. Una lingua che imbroglia la parola imbrigliandola radicalmente al corpo: i significanti, spezzati, assonanti a parole riconoscibili, subiscono inversioni sillabiche, ripetizioni fonetiche e, spesso mutilati, trovano completamento in gesti corporali e versi onomatopeici. L’evidente omaggio al duo comico tedesco d’inizio Novecento formato da Karl Valentin e Liesl Karlstadt, dichiarato nella scelta dei nomi attribuiti ai due personaggi, rimane tale. Il regista costruisce infatti una partitura scenica accogliendo la tradizione e tradendola nel contemporaneo: si colloca cioè scientemente nel corso della storia pur mantenendosi eticamente nel proprio tempo, confessandone la distanza.

Il desiderio dei due guitti è quello di visitare un teatro all’italiana evitando il pagamento del biglietto. Per farlo devono superare l’ostacolo della mela illuminata che con la sua voce metallica respinge i due e determina lo svolgimento dell’azione per tutta la durata dello spettacolo. La voglia di entrare nel tempio dell’arte è fame: “Tu hai vogghia di chuardare uno scpettaculo?” “No, ho vogghia di mankhiare una poltrona”. I due riusciranno a varcare la soglia grazie ad una strategia-paradosso che diverte amaramente il pubblico.
 La struttura narrativa del primo movimento si ripete muta subito dopo, al contrario, su musica originale composta da Adriano Matcovich, per poi triplicarsi nuovamente, da capo, per ordine del computer, a ritmo sfrenato, parola inclusa. Il livello di difficoltà tecnica sia fisica che vocale, sottopone ad uno stress notevole gli attori, capaci di sostenerlo dignitosamente.
Il momento centrale, musicale, risulta assolutamente necessario, anche se a volte rischia di scivolare nel virtuosismo: fa ripercorrere al rovescio l’azione già conosciuta mostrandone la complessa architettura gestuale. Se da un lato questo potrebbe risultare mero esercizio fisico, dall’altro consente di rivelare l’organismo autonomo e autosufficiente che la regia è riuscita a costruire, capace di raccontare una storia simile alla prima ma con un drastico rovesciamento dei rapporti di forza tra i due corpi in scena.
Nella prima sequenza era infatti Livia Antonelli ad anticipare movimenti ripetuti dall’altro. Nella seconda, on backwards, è Valerio Puppo a condurre, rovesciando le dinamiche relazionali. La terza sequenza, che ripercorre tutta l’azione ritornando al verbo, ad una velocità impressionante, spezzata da qualche sporadica sospensione in slow motion, pur non avendo sapore di virtuosismo, rappresenta una difficilissima prova per gli attori, i quali si trovano a dover concertare fiato parola e movimento sostenendo una ritmica frenetica.  

Pubblicità.

La seconda parte dello spettacolo è creata su un susseguirsi di situazioni anticipate dalla voce metallica della mela: lottatori di sumo (cultura-culturismo) che ritentano l’ingresso a teatro, rievocazione medievale dell’Armata Brancaleone con una specie di volgare maccheronico e il brandire di spade lignee duellanti, excursus storico che dall’era archeozoica delle amebe arriva ad un futuro galattico passando per società tribali e società complesse “degli uomini”, fino all’uccisione della tecnologia con delle spade luminescenti onde penetrare la morte nera. Purtroppo questa seconda metà dello spettacolo non risulta degna della prima. Di per sé ciascuna situazione funziona, il livello di scrittura e le partiture fisiche risultano di pari livello. Ciò di cui si avverte la mancanza è quell’unitarietà narrativo-stilistica molto coerente nella prima parte. Fino alla pubblicità, spartiacque, i due pagliacci agiscono all’interno di un orizzonte di senso molto chiaro e definito. Successivamente, assecondando le richieste della tecnologia/regia che dà loro ordini di esecuzione, si disperde quell’unitarietà e si crea nello spettatore spaesamento e confusione. Ciascuna gag esiste di per sé, slegata dalle altre. Viene meno lo scopo ultimo dello stare in scena dei due personaggi. Fortunatamente lo spettacolo non si dilunga troppo ma se si fosse concluso subito prima dell’inserto pubblicitario avrebbe guadagnato in merito, poiché fino a quel momento, il microcosmo creato poggiava su ingranaggi perfetti, autonomo come un organismo vivente. Il resto: un eccesso.

L’immagine del clown, archetipicamente e nelle diverse fenomenologie storico-iconografiche, suggerisce l’idea di una creatura di confine. Alle soglie dell’umano, benedetta per la sua drammatica lucidità nella percezione del mondo e della storia, maledetta per lo stesso motivo. Più umano dell’umano, più vivo tra i vivi, il clown è in odor di morte. Piange l’omologazione e la massa, si distingue da essa per il suo tragico e ridicolo naso rosso, attraverso il quale fa ridere gli altri di se stessi senza che se ne accorgano. Solo e ultimo ai confini della terra. Questo poveraccio è colto in tutta la sua essenza dallo sguardo attento di Niccolò Matcovich che scrive e dirige uno spettacolo sarcasticamente mortifero con una dolcezza e sensibilità evidenti. Gli attori sono degni della sfida cui vengono sottoposti. Il vero peccato è quello di non aver trovato il coraggio di rinunciare al fardello inutile delle ultime situazioni messe in scena. I tre movimenti iniziali, dei quali il primo era già stato creato come corto e gli altri due inventati successivamente come variazioni su di esso, gridano con forza il loro bisogno di libertà.

Info:
Visto il 12 gennaio 2017
L’IMBROGLIETTO
12-15 Gennaio Sala Teatro
di Niccolò Matcovich|
con Livia Antonelli e Valerio Puppo

BIGLIETTO RIDOTTO a 8 euro PRENOTANDO COME LETTORE DI GUFETTO!! Tel: 349-435 6219

image_pdfSCARICA QUESTO ARTICOLO IN FORMATO PDF