Prima di una nuova giornata di Festival oggi mi sono trattenuta a godermi la natura del Podere Violino dove dormo. In mezzo ai cavalli e tanti alberi di varie essenze nella pianura produttiva che si srotola davanti a Sansepolcro. A un tavolino sotto alle travi con i nidi di rondini incontro il vecchio proprietario del podere che mi racconta come Sansepolcro sia cambiata nelle sue attività produttive agricole con tanti poderi che la circondavano alla produzione industriale di trasformazione. Sono pronta per il Festival! Quando arrivo è ancora presto per l’inizio degli spettacoli e vado in giro per il borgo antico deserto tra strade di sole, grilli e fazzoletti di verde che riposano l’occhio. Il Festival è fatto di una ospitalità amichevole e sincera e di una vita effimera e intensa di tanti appuntamenti quotidiani.
Contenuti
C’est la vie di Collectif Zirlib / Mohamed El Khatib
In chiusura della nostra prima serata di Festival il Collectif Zirlib / Mohamed El Khatib presenta “C’est la vie”, uno spettacolo/documentario sulla perdita di un figlio di 2 attori della compagnia. È il racconto asciutto di una perdita incolmabile ed insieme anatomia della genesi di uno spettacolo, come se il racconto di quest’ultima potesse portare con sé l’elaborazione della perdita e la nascita di un nuovo sé, di una nuova ragione, di nuovi figli nati da loro stessi in una sorta di autogenesi. Al pubblico viene distribuito un pamphlet “guida pratica”: genesi (dello spettacolo), i protagonisti, morte 2.0, servizio post vendita, controllo dei fatti, resoconto dell’attore, resoconto dell’autore. Non è autoreferenziale, ma vuole trovare un dialogo con il pubblico. Vuole trovare una via, una formalizzazione teatrale per una perdita, per un evento autobiografico che grazie alla formalizzazione del linguaggio che è stato trovato e al libretto delle istruzioni può diventare universale. Il pubblico prima dell’inizio ha 4 minuti per leggere come è nato il progetto. Tutto è dichiarato, non c’è niente di nascosto o misterioso perché il soggetto è già misterioso di per sé, la morte, e soprattutto la morte di un figlio, mentre il resto deve essere manifesto per tentare di capirci qualcosa, per accendere una luce in questo buio così scuro e infinito. Tutto è dichiarato: si dice come entrano gli attori, che posto prendono, cosa dicono, perché lo dicono e come lo dicono. La chiave dello spettacolo è il sorriso: non scompare mai dal volto degli attori/genitori, come fosse una maschera, perché questo è, sì, uno spettacolo che prende spunto da un episodio autobiografico, ma è pur sempre formalizzato. Nonostante è difficile da catturare perché sfugge, come sfuggente è la morte.
Nella “guida all’uso” vengono documentati, passo per passo, gli incontri telefonici e gli interscambi via mail tra attori e regista e si entra nel dolore e nell’identità dei protagonisti. Fanny e Daniel dal vivo si limitano a raccontare lo spettacolo, affidando invece ad un video, grazie a un televisore in scena (il terzo attore), i momenti narrativi su vita e morte dei loro figli. Tutto è metateatrale nel tentativo di trovare un nuovo linguaggio, una modalità nuova per digerire il dolore. Daniel è di origine ebraica e incarna culturalmente la perdita, mentre Fanny è una donna anticonformista che non accetta i cliché sia linguistici sia culturali che cercano di appiattire la vita e il dolore. Un impianto registico costrittivo e rigoroso, inflessibile per poter approfondire un’angoscia indicibile oltre l’emotività che viene espressa in altra forma: il ridicolo biglietto di Natale post mortem da parte dell’asilo per Fanny e il racconto della mucca e del rabbino per Daniel. Il tema è il lutto, quello più inaffrontabile, quello più indicibile, meglio ineffabile che viene “archetipizzato” come ci si trovasse di fronte al piccolo Astianatte, gettato giù dalle mura di Troia.
Padre d’amore padre di fango di Cinzia Pietribiasi
Nella serata del 23 luglio ho seguito tre spettacoli, selezionati dai Visionari, il progetto europeo in rete con varie realtà teatrali italiane ed europee, ideato da Lucia Franchi e Luca Ricci per la formazione di uno spettatore consapevole. A partire da “Padre d’amore padre di fango” di Cinzia Pietribiasi, anch’esso un racconto autobiografico: l’infanzia dell’autrice ed interprete vissuta nel rapporto tra vicinanze e lontananze con il padre eroinomane negli anni ’80. Più vicino all’autobiografia che alla drammaturgia teatrale, Padre d’amore padre di fango manca della formalizzazione nell’universale. L’autrice ha ripreso il linguaggio teatrale e tecnologico di Agrupación Señor Serrano senza riuscire a dargli una propria connotazione e a trasformarlo in una sua formalizzazione originale, che non trabocca neanche in un linguaggio emotivo anticonformista. Ci sono spunti significativi, come i campioni olfattivi distribuiti al pubblico, che però non vengono sviluppati. Anche l’uso delle fotografie o dei video viene banalizzato nell’usuale modalità social. La memoria, in termini di perdita o di estremo tentativo di attaccarcisi, ai ricordi nostri e degli altri, diventa solo immagine essiccata delle pagine di Facebook o delle storie temporanee, o altrimenti perenni di Instagram. Lo spettacolo rappresenta bene un mondo privato e una storia con la cronaca di quegli anni, ma non propone un nuovo micro-universo. Un tentativo con tanti spunti significativi ancora non compiuto.
Piume di Elena Burani e Oriri dei Bambula Project
Sempre nell’ambito dei Visionari nel corso della serata si sono poi avvicendati due spettacoli di danza: Piume di Elena Burani e Oriri dei Bambula Project. Elena Burani mette in scena un apologo scanzonato e clownesco della condizione della donna asservita emotivamente a un uomo e ai suoi doveri sociali che la tempestano e la rendono isterica e inebetita. Vengono utilizzati molti oggetti, cliché teatrali e sociali per rappresentare la condizione femminile, ma con una sperimentazione fresca e divertente. Dalla compostezza iniziale la danzatrice rotola verso un disfacimento circense tra il buffo e il tragico in cui mostra tutta l’incapacità e sopratutto la difficolta nel relazionarsi con l’altro e con le situazioni. Gli oggetti le fanno da spalla e sempre rappresentano questo disagio: le scarpe rosse e l’incapacità di starci dentro, la giacca che diventa un altro da sé che la tormenta, il ventilatore con cui combatte per restare in piedi in un combattimento/cambiamento fino alla trasformazione della testa in una latta vuota, incapace di pensare, di analizzare, di agire. Così le donne, in una socità patriarcale, smettono di fare paura. Ne consegue un dolore che Elena Burani non maschera, standoci dentro con la leggerezza delle piume.
In Oriri l’atmosfera è cupa e barocca. La musica originale e le coreografie riportano a scenari alla Cronenberg e suggeriscono l’ancestrale, vegetale e animale alle volte con sfumature kitsch in una sorta di allucinazione/incubo/sogno. I corpi si sfaldano in entità e il movimento bagnato oniricamente dalla luce suggerisce altro. L’atmosfera è continuamente evocativa di suoni e colori della foresta, con immagini di animali che escono dal loro guscio protettivo alla vita, oppure della Venere che esce dalla spuma del mare o di scarafaggi che si uniscono in una danza d’amore e passione ctonia. Tutto è capovolto e rovesciato in uno stato onirico che capovolge la visione dove visibili sono solo i busti nudi mentre il resto del corpo si ammanta di una gonna sufi. I Bambula Project plasmano con maestria il nostro Tutto in trasformazione, in divenire nell’attesa e nel rispetto di vedere quello che nasce, quello che sorge, in latino oriri. Come la natura, i danzatori crescono e si mutano senza avere la pretesa di trasformare il germoglio in ciò che vogliamo noi, ma lasciandogli la libertà di diventare ciò che è, anche uno scarafaggio.
Come le luci dei proiettori lentamente si sfaldano così carichi di emozioni e curiosità, eccitata da tutti questi spettacoli visti, mi dissemino per le strade di Sansepolcro alla ricerca del dopo festival per continuare a vivere in questa dimensione fuori dalla quotidianità e dentro l’arte, nel concetto di altro. Non raggiungerò mai il bordo della piscina del dopo festival con il suo concerto super trap, mi perdo, inghiottita dai pensieri e dai volti di questa notte ancora troppo profonda. Mentre cammino per le strade ormai deserte ripenso alle immagini degli spettacoli e alle persone che ho incontrato in questo lembo sghembo di notte, fonda e buia ma che cambia dentro mentre la si ascolta.
Clicca qui per il primo resoconto a firma di Susanna Pietrosanti mentre a questo link è disponibile il primo resoconto a firma di Sonia Coppoli.
KILOWATT FESTIVAL 2020
Sansepolcro, 22 – 23 luglio 2020
C’EST LA VIE (prima nazionale)
di Collectif Zirlib /Mohamed El Khatib
con Fanny Catel, Daniel Kenigsberg
regia Fred Hocké, Madeleine Campa
suono Nicolas Jorio
produzione Martine Bellanza
co-produzione Bois de l’Aune, CDN Orl.ans/Loiret/Centre, Le Liberté – scène nationale de Toulon, Centre dramatique national de Tours-Théâtre Olympia, Pôle Arts de la scène de la Friche la Belle de Mai, Théâtre de la Ville-Paris, Théâtre Ouvert Centre National des Dramaturgies Contemporaines, Festival d’Automne à Paris
ringraziamenti Bruno Clavier, Alain Cavalier, Mots découverts, Les Éditions Vies parallèle
C’est la vie è pubblicato da Les Solitaires intempestifs (2017)
Chiostro Santa Chiara
22 luglio 2020
PADRE D’AMORE, PADRE DI FANGO (prima assoluta)
testo, regia e interpretazione Cinzia Pietribiasi (Compagnia Pietribiasi/Tedeschi)
musiche dal vivo Giorgia Pietribiasi
consulenza drammaturgica Pierluigi Tedeschi
scene Giulia Drogo
odori Marco Ceravolo
luci Davide Cavandoli
immagini e video Ayanta Noviello, Cinzia Pietribiasi
assistente performer e scene Lidia Zanelli
voci fuori campo Michele Zaccaria
in collaborazione con NoveTeatro
con il sostegno di Il Teatro delle Donne – Centro Nazionale di Drammaturgia di Firenze, IntercettAzioni – Centro di Residenza Artistica della Lombardia (Circuito CLAPS, ZONA K, Industria Scenica, Milano Musica, Teatro delle Moire)
ringraziamenti Stefan Kaegi, Lola Arias, Alina Marazzi, Franco Ripa di Meana, Filippo Ceredi, Lorenzo Belardinelli, Spazio Quarantanove, Via Roma Zero, Unzalab, Alfonso Borzacchiello
Chiostro Santa Chiara
23 luglio 2020
PIUME
di e con Elena Burani
luci Rocio Espana Rodriguez
aiuto regia Andrea Bettaglio, Alice Roma
musica Eufemia Mascolo
con il supporto de La Corte Ospitale, Dinamico Festival, Sosta Palmizi, Teatro della Tosse
Giardino alla Misericordia
ORIRI (anteprima)
di Bambula Project
coreografia e interpretazione Paolo Rosini
e con Chiara Tosti
musiche Michele Mandrelli
co-produzione BAMBULAproject, Balletto Civile, Rosa Shocking/Festival TenDance
con il sostegno di Centro di Residenza della Toscana (Armunia – CapoTrave/Kilowatt), Home Centro Coreografico e CURA#residenze interregionali
Chiostro San Francesco