Lo stanzone di Carte Blanche, dove Armando Punzo decide che l’intervista avrà luogo, è accogliente in questa mattina in cui Volterra è bianca di nebbia: a metà tra ufficio e salotto, con locandine iconiche di spettacoli mitici della Compagnia della Fortezza a far da sfondo. Ci sediamo semplicemente al tavolo, come due amici che prendono insieme il caffè – e io lo prendo in effetti (lui no, da napoletano atipico lo odia e non ne beve mai), seguendo la ritualità che impone ad ogni visitatore della Compagnia dentro il Carcere di Volterra di vedersi offerta una tazzina di caffè preparata dagli attori lì per lì, e squisita: uno dei riti d’accesso a uno spazio altro, ad un’altra dimensione. C’è un libro tra noi, un libro epifanico. Faccio cominciare l’intervista da lì, consapevole che comincio ex abrupto, ma non volendo ignorare i segni.
Susanna Pietrosanti: Concorda con me sulla possibilità di definire il libro appena uscito, suo e di Rossella Menna (Un’idea più grande di me, Luca Sossella Editore) come un dialogo platonico? Per procedimenti, per scopi, per struttura?
Armando Punzo: Sì, veramente sì. Nel senso che non è il mero racconto… vero? Ecco, e non è un’intervista. È chiaro che abbiamo scelto una forma, io ho voluto una forma che fosse questa della conversazione, proprio perché mi interessa usare le forme già esistenti e provare a forzarle, in qualche modo…
SP: Le dà fastidio quando qualcosa che sente suo, che sente vicino, le immagini, per esempio, folgoranti dei suoi spettacoli, vengono interpretate dal pubblico seguendo un altro filo, divergendo da quello che lei, magari, aveva inteso? Le dispiace come un fraintendimento o le fa piacere come, platonicamente, un processo di nuova creazione partendo dalla vostra creazione?
AP: No, non mi dà nessun fastidio, anzi. Sarebbe veramente estremamente violento da parte mia, cioè, autoritario anche, se proponessi delle immagini che non sono soltanto mie, e che quindi volessi, o potessi immaginare di indirizzare gli altri alla mia stessa lettura. È normale che sia un campo dove ognuno , ma veramente liberamente, prende quello che è. L’unica cosa che mi preoccupa in generale a volte è che un’idea – ma non parlo della ricezione che ne fa il pubblico – ecco, un’idea possa essere abbassata dagli altri, partendo dalle proprie esigenze. Anche un’idea, veramente, può rovinarsi strada facendo. Perché parte in un modo grande, alto, e poi viene rielaborata, manipolata, fino talvolta a farla diventare l’opposto di ciò che era alla partenza. Però questo non è legato alla ricezione del pubblico. Questo mi sembra invece molto più legato proprio all’idea di teatro in carcere…
SP: Uno dei motivi per cui ha scelto di pubblicare il libro è forse questo, o sbaglio?
AP: Il libro per questo è molto, molto importante. Spero che le persone lo leggano, che chi è vicino alla Compagnia lo legga, o chi è curioso, per capire proprio questo: c’è un’idea che per me ha un valore veramente ampio e però, la stessa idea, viene presa da altri e rischia di essere ridotta a qualcosa di sociale, al concetto di rieducazione: ecco, queste sono parole che veramente mi assillano da una vita, che mi seguono. Un modo banale di chiarire un’idea complessa, e anche un modo per abbassarla a noi, e in questo abbassamento, a volte, c’è un rischio. Quindi della ricezione molteplice del pubblico io sono contento… Spero proprio che le immagini siano quasi un’esca, un elemento che attiri le persone a confrontarsi con loro, come è stato anche per noi quando sono apparse le prime volte…
SP: Anche l’equilibrio silenzio – parole arriva e basta? In Naturae, ad esempio, mi sembra di poter registrare una maggior valenza drammaturgica del silenzio.
AP: Sì, le parole sono asciugate, ridotte… sì. C’è un tentativo in quella direzione. Secondo me non ci siamo ancora riusciti fino in fondo. C’è un forte tentativo di asciugare e di dire solo alcune parole, solo alcune indicazioni. Credo che però alla fine nemmeno ci siamo riusciti, in realtà ci siamo riusciti più durante le prove, dove sono emerse veramente delle parole chiave, delle frasi: però evidentemente hanno bisogno ancora di più, di maggiore spazio, di maggiori possibilità di esser dette come le abbiamo immaginate in prova. Mettere in scena è un procedimento faticoso..
SP: Può darsi che l’esperienza della caccia, che lei dichiara di aver praticato da ragazzo, prima di salire a Volterra, le abbia suggerito i semi del silenzio, il tema della profonda sacralità della natura?
AP: La caccia vissuta profondamente è un salto dimensionale, è l’entrata in una dimensione in cui la natura è altro e te, insieme, così sopra come sotto. Sicuramente è stata un’esperienza della mia vita estremamente importante, da ragazzino, poi insomma quando sono arrivato a Volterra ho smesso, non riuscivo più…Ma sicuramente la questione della caccia è – ho memoria veramente di questi silenzi, ho memoria di questi boschi, ma soprattutto di questi laghi – io ero un cacciatore che frequentava i laghi, e quindi questi laghi dove poi alla fine era poco importante quello che facevamo…sicuramente la caccia come un allontanamento dalla vita reale. Io pensavo, quando i miei coetanei uscivano, facevano i loro giri, io – avevo questo aspetto che mi arricchiva tantissimo, una cosa che mi piaceva tantissimo, mi faceva sentir bene, questo stare a contatto con la natura.. Sicuramente è stata un’esperienza forte, che mi ha accompagnato per moltissimi anni della mia vita. Chi chiaramente è contrario alla caccia dice che io dico assurdità in questo senso, però questa è stata la mia esperienza, superata; adesso sono vegetariano e sono in difficoltà anche se vedo un uccellino in difficoltà…
SP: Tornando al rito sacro per eccellenza di cui ci occupiamo, io so che la vostra sperimentazione è solo vostra, e che voi occupate un posto particolare nel panorama teatrale europeo di questo momento. Ma se, in una riflessione critica che lo scorso anno alla Biennale aveva iniziato a illustrare, parlando delle differenze tra performer e attore, se dovesse tracciare un panorama del teatro contemporaneo, in bene e in male, e magari collocarvisi, che direbbe?
AP: Non ho una conoscenza approfondita di tutti, ad un certo punto, smettendo anche di dirigere il Festival ho anche, devo dire, ma proprio per scelta, smesso di occuparmi veramente di guardare cosa fanno gli altri e concentrarmi più sul mio lavoro. Sicuramente l’impressione che ho è che c’è un teatro che è completamente asservito all’attualità, che rincorre l’attualità, che cerca evidentemente i temi in televisione, e questo aspetto devo dire che mi sembra che si perdano quelle che sono le potenzialità profonde del teatro. Il teatro dovrebbe essere veramente un’alterità, trattare altri argomenti, anche perché quegli argomenti di attualità sono trattati fin troppo, e fin troppo bene, da mezzi che hanno altre potenzialità e che sono forse anche più giusti per rappresentarli. Io sento questo, che c’è un teatro che si crede veramente impegnato se tratta questi stessi temi. Questo è l’aspetto. Non è per tutti questo. Però veramente c’è chi impazzisce per vedere rappresentata la quotidianità: arrovellarci e perderci nella nostra quotidianità, differenze sociali, disparità sociali, migranti, insomma, che sono temi della vita reale terribili, importanti, ma insomma basta guardare veramente un documentario fatto bene, e uno rimane sconvolto, a volte mille volte più che dal teatro… che non riesce nemmeno a toccare dei grandi vertici in questo campo. Basta una foto, una fotografia fatta bene, per ferirci l’anima veramente. Invece il teatro certe volte vuol fare questa operazione e nemmeno riesce, e secondo me non è proprio il suo mandato. Le persone penseranno che sono completamente pazzo e che vivo fuori dal mondo, e io vivo fuori dal mondo, però il mio lavoro nel teatro dice che non sono fuori dal mondo, dice che ho a che fare con un mondo veramente concreto, ma molti non lo capiscono, anche amici…non capiscono il fatto che io quotidianamente ho a che fare con la realtà…E il problema è di trasformare la realtà, non di raccontarla. Molti, veramente molti, tra critici, attori e persone di teatro sembra che questa cosa non la vogliono capire. Non gli arriva. Per loro rappresentare è più che trasformare. Che vivere e trasformare.
SP. Si aprirà il teatro in carcere? Per rendere stabile questa vita e questa trasformazione?
AP: C’è stato un sopralluogo importante per la prima volta, rischiavamo che adesso a dicembre i soldi sparissero, fossero riassorbiti, tornassero indietro senza essere stati spesi, incredibile che in questo paese accadano queste cose, in un silenzio imbarazzante, generale. Allora ho chiesto al garante dei detenuti di muoversi, gli ho detto solo tu, Franco, puoi provare a rimettere in moto questa cosa, e lui ha accettato di provarci dopo aver fatto sua questa possibilità, quindi si spera di sì. Abbiamo fatto un sopralluogo importante con tutti gli enti. Ho visto la bozza di quell’incontro inviata dall’Assessore Regionale, dove si dà mandato alle opere pubbliche di cominciare gli scavi per i saggi… e potremmo anche scoprire che lì ci sono tombe, templi, e si blocca tutto…ma almeno ci sarebbe un motivo…
SP: Sì, un motivo di senso…
AP: Sì, questo lo accetterei. Ma non che fosse bloccato senza senso, perché evidentemente questa idea del teatro in carcere fa spavento, sì, mette in difficoltà, non si capisce perché ma fa paura…
SP: A lei che cosa fa paura? La realtà?
AP: Sì, la realtà. Che ci facciamo attanagliare dai nostri stessi istinti e bisogni primari, dalla paura, dai limiti. E invece dobbiamo andare avanti, anche con la paura.
SP: Non le chiedo dove vanno Lui e il Bambino nel prossimo spettacolo…
AP: No, non lo so. Lo scopriremo alla prossima valle…
Intervista ad Armando Punzo, Volterra, 8 agosto 2019