In scena dal 22 al 25 marzo al Teatro Fabbricone di Prato lo spettacolo IFIGENIA, LIBERATA che ha debuttato l’anno scorso al LAC di Lugano. Un progetto teatrale che affronta il mito classico a partire dal testo dell’ultima tragedia di Euripide e che affonda le radici nei testi sacri e nella filosofia contemporanea. Abbiamo intervistato il regista e drammaturgo Carmelo Rifici prima della visione per comprendere il processo creativo che sta alla base dello spettacolo.
a cura di Leonardo Favilli e Alice Capozza
Leonardo Favilli: Ifigenia, liberata è un lavoro corale nato dalla collaborazione tra LAC di Lugano e il Piccolo Teatro di Milano, che ha visto coinvolta, oltre a te, Angela Dematté per la drammaturgia. Qual è stato il processo di genesi di questo progetto?
Carmelo Rifici: Il progetto è partito due anni prima del debutto dello spettacolo con un lavoro di studio che io ed Angela stavamo facendo sul filosofo René Girard, all’interno di un percorso personale tra filosofia e antropologia, che risale al primo nostro spettacolo su Margherita Cagol e la nascita delle Brigate Rosse. Quello che ci interessa è cercare di capire il meccanismo insito all’interno dell’essere umano che fa sì che la nostra razza rimanga fortemente aggressiva, che cosa è stato scoperto intorno a questa sua origine violenta, anche grazie all’aiuto di filosofi e di autori. In questo caso i maggiori che abbiamo utilizzato sono Eraclito, Platone, Nietzsche, Girard e alcuni passi dei profeti, in particolare il profeta Isaia. Questo spettacolo inoltre nasce dall’esigenza di capire come ancora oggi, nonostante la sfera religiosa sia stata espulsa dalle cose necessarie di questo mondo, il capro espiatorio, la ricerca di una vittima che paghi per tutti, di un colpevole al di fuori di noi, la ricerca di un male che non sia dentro di noi ma sia rappresentato da qualcosa fuori, dallo straniero o dal diverso, sia così ineliminabile. E’ evidente che il testo di Ifigenia in Aulide, che è l’ultimo di Euripide prima della sua morte, dava delle grandi possibilità di lettura di ciò che significa cercare un colpevole al di là di noi stessi, una necessità dell’uomo di cercare il debole che vale tutt’oggi. A decidere di mettere in scena Ifigenia di Euripide ci siamo arrivati dopo un anno di studio, coinvolgendo il Piccolo di Milano e gli attori, con cui abbiamo affrontato una seconda fase di studio per arrivare allo spettacolo che il pubblico vedrà.
L.F. Dopo oltre 2000 anni cos’ha ancora da dire all’uomo contemporaneo il mito di Ifigenia?
C.R. Prima di tutto secondo me il tema più importante è quello della ricerca che Ifigenia fa nei confronti del padre. Lei ha bisogno di una figura paterna, della parola paterna che dia un senso al caos di ciò che sta vivendo. Questa parola è legata alla ricerca dell’amore, non un amore romantico, ma l’amore in quanto relazione. Tutto questo è molto contemporaneo. Sappiamo quello che Lacan e il suo adepto italiano Massimo Recalcati hanno detto sull’evaporazione del padre e qual è l’esigenza del buon figlio di ricercare nel padre la parola che le renda senso. Questa mancanza della parola, del senso, credo sia il motivo per cui tanti giovani vengono suggestionati da derive populiste o da ideali più grandi e più terribili come certe ragazze che tornano in Siria per diventare kamikaze. Alla base di tutto questo c’è la mancanza di questa parola che riformula un senso. Anche Ifigenia chiede al padre “dammi una parola” ma il padre le dice di no. Questo credo che sia non solo universale ma fondamentalmente attuale.
L.F. La tecnica del metateatro investe tipicamente il pubblico del ruolo di voyeur rispetto a ciò che si svolge sul palcoscenico, come se stesse illegittimamente assistendo ad un non-finito. Perché questa scelta per un mito classico?
C.R. Prima di tutto va premesso che il rito teatrale della classicità non c’è più, il concetto di catarsi grazie alla partecipazione teatrale non appartiene alla ritualità contemporanea: il pubblico era un pubblico attivo, che stava lì dieci ore, avendo il tempo fisiologico della tragedia per sedimentare qualcosa all’interno di sé fino ad una suggestione quasi ipnotica. Oggi il teatro ha la vocazione ad essere un luogo di conoscenza immediata, ma è difficile se non fai un testo contemporaneo, che parli di noi. Il metateatrale ci serviva a creare un simposio, un dialogo con il pubblico. Anche se è ovvio che tutto è artificialmente costruito, gli attori hanno comunque anche una buona dose di improvvisazione, soprattutto i personaggi di Tindaro Granata e di Mariangela Granelli (ndr. che interpretano il regista e la drammaturga) possono cambiare le carte in tavola, dando al pubblico la possibilità di sentirsi parte attiva del processo di conoscenza: il pubblico non risponde ma potrebbe farlo. Lo si mette nella condizione di essere uno spettatore attivo, non tanto voyeuristico dei meccanismi del teatro in senso pirandelliano, ma partecipativo in una discussione aperta: voi spettatori c’entrate, voi siete qui, non vi dovete sentire spettatori seduti. In questo modo mettiamo in contatto pubblico e attori senza una vera esigenza metateatrale, che diventa per noi un espediente.
L.F. È previsto un seguito per questo percorso progettuale iniziato con Angela Demattè?
C.R. Due progetti importanti: uno che parte da Ifigenia e che spero si compia nel 2021/2022; è un lavoro sulla Bibbia, letterario di analisi. Fondamentalmente, come si dice nello spettacolo, noi veniamo da due identità, quella greca e quella giudaico-cristiana. Ifigenia mi ha messo la curiosità di scoprire cosa c’è nell’altra tradizione letteraria, quella ebraica. Ed è un’impresa colossale perché oltre ad Angela ci saranno almeno altri tre autori, altri quattro o cinque registi. E poi c’è l’altro grande autore che è sempre nascosto nei miei spettacoli ma che ho affrontato una sola volta, ovvero Shakespeare. Non l’ho più voluto vedere neanche di striscio, perchè ne sono rimasto scottato, ma in realtà è l’autore cardine anche di Ifigenia perché è lui che ha dato a noi contemporanei la possibilità di leggere con pertinenza i classici. E quindi ho in mente un progetto abbastanza simile ad Ifigenia, diverso nella modalità e su un testo di Shakespeare che possa destrutturare una sua tragedia per vedere cosa lui sta nascondendo all’interno.
Alice Capozza: Qual è stato il rapporto con gli attori nella costruzione dello spettacolo dopo la fase di costruzione puramente drammaturgica?
C.R. La drammaturgia è cambiata molto con l’arrivo degli attori: Angela Demattè è un’autrice molto letteraria e quindi giustamente gli attori hanno avuto bisogno di fare proprie alcune battute. Abbiamo lavorato insieme agli attori con Angela nella ricerca del significato per come le aveva scritte. Poi nello spettacolo il regista e la drammaturga, che saremmo io ed Angela, in realtà saranno interpretati da Tindaro e da Mariangela che evidentemente hanno una natura molto differente dalla nostra, che ha evidentemente cambiato la drammaturgia. Tra gli attori ci sono delle differenze, certi attori che sono entrati con un piede sensibile all’interno del lavoro, altri invece hanno spostato maggiormente alcuni accenti. Noi nel lavoro di drammaturgia sapevamo cosa volevamo raccontare ma non come, e questo come è arrivato man mano che si lavorava con la compagnia. Del resto giustamente noi cambiamo e quindi ancora ieri abbiamo magari modificato un verbo, una parola, che sono piccoli slittamenti ma sono importanti perché significa che noi siamo sempre più dentro la materia.
A.C. Quali sono stati il rapporto e l’accoglienza del pubblico?
C.R. Lo spettacolo ha avuto una buona accoglienza, piace, se possiamo dire così, sperando che piaccia anche qua. Lugano è una città culturalmente difficile ed ho visto la gente uscire comunque impressionata. È uno spettacolo che si pone il problema del pubblico, che non chiede al pubblico di sapere più di quanto possa ragionevolmente sapere rispetto alla tragedia. Anche facendo un po’ storcere il naso a qualche addetto ai lavori, abbiamo scelto di dare ogni tanto un suggerimento, una chiave di lettura, come ho fatto anche con gli attori durante il lavoro. A volte trovo che siamo troppo chiusi dentro noi stessi. Non vedo nulla di male nel fatto che uno spettatore non abbia quel bagaglio culturale che il regista e la drammaturga hanno dopo aver studiato per anni l’argomento. E’ evidente che il teatro serve a questo: serve a conoscere e credo che la conoscenza, se è una conoscenza profonda, debba comunque essere portata verso il pubblico. Non credo nel rituale che tiene cripticamente l’attore, l’autore o il regista legati alla propria conoscenza, e quel che capite, capite, quel tipo di teatro non mi appartiene. E non credo che per questo sia necessario abbassare il livello: in Ifigenia con gli autori che usiamo la discussione filosofica è abbastanza impervia, anche ipotetica. Penso che agli spettatori in sala dobbiamo restituire sempre qualcosa, dopo che sono usciti di casa, hanno comprato un biglietto, sono entrati a teatro: sono una razza in via di estinzione e vanno curati uno per uno. Questo spettacolo è costruito per il pubblico, perché possa portarsi a casa qualcosa, soprattutto il desiderio di conoscenza come quello che abbiamo avuto io e Angela che ci ha spinti fin qua.
Ringraziamo per la disponibilità Carmelo Rifici e la Fondazione Teatro Metastasio per l’intervista.
IFIGENIA, LIBERATA
ispirato ai testi di Eraclito, Omero, Eschilo, Sofocle, Euripide, Antico e Nuovo Testamento, Friedrich Nietzsche, René Girard, Giuseppe Fornari
progetto e drammaturgia di Angela Demattè e Carmelo Rifici
regia CARMELO RIFICI
con (in ordine alfabetico) Caterina Carpio, Giovanni Crippa, Zeno Gabaglio, Vincenzo Giordano, Tindaro Granata, Mariangela Granelli, Igor Horvat, Francesca Porrini, Edoardo Ribatto, Giorgia Senesi, Anahì Traversi
scene Margherita Palli
costumi Margherita Baldoni
maschere Roberto Mestroni
musiche Zeno Gabaglio
disegno luci Jean-Luc Chanonat
progetto visivo Dimitrios Statiris
video Maximilian Montorfano, Jacopo Montorfano e Agnese Chiodi
produzione LuganoInScena
in coproduzione con LAC Lugano Arte e Cultura, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa e Azimut
in collaborazione con Spoleto Festival dei Due Mondi, Theater Chur
con il sostegno di Pro Helvetia, Fondazione svizzera per la cultura
credits: foto di copertina di Attilio Marasco, foto di scena di Marsial Pasquali
Teatro Fabbricone di Prato
22/25 marzo 2018 | feriali ore 20.45, sabato ore 19.30, domenica ore 16.30