INTERCITY FESTIVAL OSLO II @ Teatro della Limonaia: vivere o sopravvivere all'oggi

Necessità vitale del teatro è vivere l’oggi. Vocazione storica del Teatro della Limonaia di Sesto Fiorentino è per portare, spesso per la prima volta in Italia, autori teatrali internazionali contemporanei. Il trentaduesimo Intercity Festival è dedicato alla drammaturgia norvegese come nel 2009. Una scrittura nordica, che si avvicina a quella britannica – luogo della nella scorsa edizione, Intercity London, per il quale Gufetto ha recensito SEE PRIMARK AND DIE! e PSICOSI 4:48. Ci troviamo di fronte a una drammaturgia che ricorda la densità e il ritmo battente dei dialoghi londinesi, ma capace di essere più intima e delicata, con un taglio ironico e surreale, mai superficiale.

a cura di Sonia Coppoli e Alice Capozza

L’ostaggio

L’apertura del festival è la prima italiana dell’opera giovanile di Einar Schwenke: L’OSTAGGIO per la regia di Dimitri Milopulos, protagonisti Monica Bauco e Daniele Bonaiuti. Una donna sola, un uomo solo. Solitudini dove le relazioni passano sempre attraverso gli oggetti, parlanti essi stessi, vivi, in una scena che strizza l’occhio al fumetto, per i colori accesi e la luce irrealistica: la televisione, il telefono, il divano al centro, un cuore luminoso appeso alla parete. In questa realtà surreale, protagonista della scena è la televisione, sempre accesa, occhio incombente e parlante che vive di un’energia propria, oscura, misteriosa, in continuo dialogo con i protagonisti, anche se da loro mai si attende una risposta. La tivù è un totem cinico e crudele, che sembra buffonesco e innocuo, ma che al contrario miete vittime reali. Anche il telefono sembra una cornetta senza filo e ci si domanda che esiste la persona nell’altra parte, anche nei rapporti più intimi come quello tra la madre e la figlia. Le macchine sono protagoniste: tutti si spiano e sono spiati attraverso la tecnica. Il contatto con gli altri individui avviene in un modo fasullo e doloroso attraverso l’immagine bidimensionale, che non diventa mai cinestesia.
La regia di Milopulos è fieramente comica. Il ritmo dei dialoghi è serrato, ma le parole si montano e si smontano all’improvviso, con pause di sospensione che spezzano la routine e portano altrove, in un equilibrio funambolico tra pieni e vuoti. Il tragico incombente è solo alluso in questi brevi momenti, come un elastico in scena. Le pause sono dei tagli inaspettati nel fluire continuo e serrato dei dialoghi; uno specchio di solitudini che si fanno compagnia con il suono di parole e voci vuote. La televisione narra cinicamente una vita balorda, usando la potenza delle immagini pubblicitarie o di serie tv. “Non considero niente più feroce della banalissima televisione” diceva P.P. Pasolini, il tubo catodico trasforma tutto in buffonata, anche le tragedie, perché “il video è una terribile gabbia”, un involucro protettore dove tutto sembra ludico e illusorio, ma che invece è ferocemente violento e assassino. Chi sopravviverà al gioco mortifero e ineluttabile della tivù?

Ritorni

Il rapporto tra reale e fittizio, a cui allude l’ambiente fumettistico e la pervadente televisione ne L’Ostaggio, diventa il contrasto tra la scena di linee squadrate, bianche e asettiche con la storia farsesca di RITORNI di Fredrik Brattberg, regia di Fabio Mascagni. Un padre e una madre, Roberto Gioffrè, Vania Rotondi, rigidi, distanti. Due vecchi già sulla scena, ai lati opposti del palcoscenico e come se ci fosse un limite invalicabile tra di loro. Gli abiti, i colori sono sbiaditi come in una casa triste. La madre cerca l’intimità, la salvezza dentro lo sferruzzare a maglia, allucinata con occhi sgranati. Il padre spia fuori dalla finestra la casa dei vicini, sentenziando luoghi comuni. La famiglia è svuotata da un dolore, da un evento ineffabile di cui non riescono a parlare. Poi tutto si srotola e da questo distacco tragico l’azione si evolve nella commedia e nella farsa. Il figlio (Simone Iosue) muore e continuamente risorge diventando metafora dell’impossibilità di vivere nell’autenticità delle emozioni, le trasformazioni nella loro continuità con l’apertura al cambiamento, senza oggetti magici, ma nella realtà della vita. I personaggi sono uniti e separati dal frigorifero, oggetto magico della scena. Anche stavolta una macchina è protagonista della scena. Il dolore, i desideri, tutta la vita è chiusa là dentro, confinata, imprigionata, controllata così che non possa versarsi fuori. Il frigo è una bara, un contatto tra il regno dei vivi e dei morti: c’è tutto lì dentro, tiene tutto. E tutto si ripete all’infinito macchinalmente e mostruosamente. Si parla di noi della nostra società intubata che non riesce ad approfondire, a reagire alla gioia e al dolore con autenticità ma che si nasconde e vive attraverso gli oggetti, che si lasciano amare, curare senza ricambiare. Gli oggetti, le azioni quotidiane ci danno sicurezza e riparo; tutto il resto, quello che esula dalla norma va eliminato e affogato, non ci rende quella sicurezza che sempre cerchiamo e che c’incanta, ci abbacina, rendendoci sempre più distanti dagli altri e ci permette di fare finta di niente.

Uomini da poco

La scena ha il sapore della lunga notte nordica, del freddo, una atmosfera che ci addentra nel gelo norvegese in UOMINI DA POCO di Hans Petter Blad, regia di Marco Di Costanzo. In scena due uomini da poco, i bravi Roberto Caccavo e Domenico Cucinotta. E’ una cristologia rovesciata quella messa in scena da Di Costanzo. Due uomini piccoli, miseri che non riescono a pieno a misurarsi con tutti gli aspetti della vita e ognuno di loro mette in atto dei comportamenti violenti, chi autolesivi, chi etero-lesivi. Hanno capacità nel lavoro, ma in tutto il resto sono inetti e si mascherano dietro l’intelligenza, la filosofia, le teorie, mentre il loro fallimento umano che sentono bruciare inesauribilmente non da’ loro tregua. Sono inconsapevoli della gabbia mentale in cui sono intrappolati e che li conduce lentamente e docilmente tra sogni e visioni verso l’autodistruzione. La scena asfittica rende l’atmosfera claustrofobia. La vasca diventa un letto, un cervello, una strada, una tomba. Tutto il loro mondo si riduce a un esiguo angolo, mentre nella loro mente tutto si espande e soprattutto la bipolarità dell’uno e l’ossessione compulsiva dell’altro. Le loro mani mostrano anche la temperatura del loro spirito, glaciale nell’uno, spasmodico nell’altro. Sono due aspetti della stessa persona che e in questo cervello sovradimensionato si riflettono, come in un labirinto intellettuale sulla colpa e l’innocenza, sull’agire e sull’ignavia codarda in una progressiva escalation di violenza e disumanità verso se stessi, perché ormai la mente è completamente collassata su se stessa. Diventano gli archetipi di due nature che rotolano inevitabilmente verso il loro destino. Ci sono una chiesa e un rituale che suggellano il compiersi di un destino inevitabile. Non riescono a tornare all’essenza della vita che è la presenza. L’atto estremo, finale, inutile cerca di recuperare il senso di autenticità in una cristologia laica che però non ha salvezza per nessuno. C’è un Cristo e c’è un Giuda perché l’uno non può vivere senza l’altro.

Intercity Festival Oslo II

L’OSTAGGIO
di Einar Schwenke
disegnato e diretto da Dimitri Milopulos
con Monica Bauco, Daniele Bonaiuti e Stefano Nigro
voci fuori scena Marcella Ermini, Roberto Caccavo e Tommaso Pallazzini
assistente alla regia Tommaso Palazzini
traduzione Cristina Falcinella
Produzione Intercity
prima assoluta in italiano

RITORNI
di Fredrik Brattberg
diretto da Fabio Mascagni
con Roberto Gioffrè, Vania Rotondi e Simone Iosue
assistente alla regia Cosimo Parretti
traduzione Cristina Falcinella
coreografie Valerio Cassa
Produzione Intercity / Teatro delle Donne
prima assoluta in italiano

UOMINI DA POCO
di Hans Petter Blad
diretto da Marco Di Costanzo
con Roberto Caccavo e Domenico Cucinotta
traduzione Cristina Falcinella
assistente alla regia Carolina Pezzini
Produzione Intercity
prima assoluta in italiano

Teatro della Limonaia
27 settembre, 5 ottobre 2019

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