Dal 15 al 18 marzo, presso il Teatro Storchi di Modena, è andato in scena IL GIOCATORE, tratto dal discusso romanzo di Fëdor Dostoevskij, dal quale il celebre attore e drammaturgo Vitaliano Trevisan – recentemente insignito del Premio Riccione, il più antico e prestigioso premio italiano – ha ricavato un’efficace drammaturgia.
Sorgono spontanee due domande: perché, nel novero delle opere dell’autore russo, scegliere proprio Il giocatore per una messa in scena teatrale? Attraverso quali soluzioni sceniche è possibile trasporre il complesso pastiche linguistico, l’elaborato patchwork tematico e l’intricata comédie humaine ravvisabili nel romanzo?
Contenuti
La Dimensione totalizzante del gioco
Quello che, stando alle dimensioni, sembra essere poco più di un racconto costituisce in realtà il punto di svolta della narrativa dostoevskiana; un estuario ove convogliano suggestioni autobiografiche, impressioni su l'inarrestabile declino della civiltà occidentale e figure topiche riconducibili ad opere dello stesso periodo o immediatamente precedenti, quali Raskòl’nikov di "Delitto e castigo" e l’ambiguo protagonista di "Memorie dal sottosuolo".
Trevisan e Gabriele Russo, regista dell’opera, si confrontano con il testo di Dostoevskij sviluppando due narrazioni intrecciate: la singolare cronaca della genesi del romanzo e il racconto, oscillante fra dramma e commedia, della discesa nel vortice ammaliante e nefasto del gioco d’azzardo. Ciò che in primis contraddistingue tanto il romanzo quanto la trasposizione teatrale è la dimensione totalizzante che il gioco assume: vero protagonista, è una sorta di dispotico e onnipresente deus ex machina che si intrufola nell’intimità dei protagonisti, costringendoli a trasformare desideri in impulsi ossessivi e passioni in deliri nichilistici. Continui rilanci, vane speranze e audaci bluff, è questa la condizione del giocatore: varcare il confine razionale della coscienza, immergendosi in un perturbante limbo onirico ove non esiste reale possibilità di comunicazione o speranza di comprensione.
La trasposizione di Trevisan e Russo
Fedeli alle svariate suggestioni del romanzo, Trevisan e Russo si impegnano nel trasporle fedelmente, seppur estraniandole dal contesto in cui Dostoevskij le aveva partorite: un Ottocento già teso all’alienazione, alla psicosi e alle paranoie di stampo squisitamente novecentesco. Questa scelta, che volutamente non consente una precisa collocazione temporale, vuole essere un monito nei confronti di un dramma facilmente riconoscibile nella contemporaneità: il frenetico desiderio di denaro che, ben presto, lascia il posto alla libido del giocare fine a sé stesso.
Con il triplice fine di instaurare un dialogo con la contemporaneità, indagare i meccanismi psichici del giocatore d’azzardo e offrire una dettagliata mappatura delle psicologie europee, la pièce mette in scena “tipi” tanto ottocenteschi quanto odierni: Aleksej Ivanovic, magistralmente interpretato da Daniele Russo, è precettore della famiglia di un anziano generale (Marcello Romolo), della cui figliastra, Polina (Camilla Semino Favro), è perdutamente innamorato. Ella, necessitando grosse somme di denaro per far fronte all’imminente tracollo economico della famiglia, lo induce a giocare per lei, asservendolo alla propria volontà. Le fini interpretazioni mostrano nitidamente i rispettivi connotati psicologici: diretto antesignano di Raskol’nikov, Aleksej è un uomo acculturato e intelligente, ma al contempo impulsivo e d’indole imprevedibile. A tratti sprezzante a tratti sofferente, ipertrofico nei sentimenti e nelle ossessioni, l’interprete lascia trapelare la componente sadica che nutre il rapporto di Aleksej con Polina: la voluttà di rendersi schiavo agli occhi della donna amata.
Interpretazioni intense, vigorose, pregnanti
Movimenti garbati e gesti minuziosi dell’interprete femminile lasciano che si palesino sulla scena il cieco orgoglio ed il perverso egoismo del suo personaggio; per quanto anch’ella, alla stregua di Aleksej, viva il dramma di un innamoramento non ricambiato nei confronti del subdolo e sornione marchese francese De Grieux (Sebastiano Gavasso) e trascini la propria esistenza nel perenne timore di un improvviso collasso economico della propria famiglia.
Si può, senza dubbio, condurre un discorso univoco sulle interpretazioni: intense, vigorose e pregnanti tutte, riescono a dare una voce propria ed inequivocabile ad ogni personaggio. Al contempo, però, un eccezionale lavoro sugli sguardi e sui vari registri vocali mostra come, di fronte al demone della roulette, ogni individualità sia soppressa, riconducendo tutti ad un unico, massificato modello. A questo proposito il lavoro compiuto dal regista sui personaggi secondari si basa su un principio: limitarsi ad un ritratto solo esteriore senza addentrarsi in tortuose analisi psicologiche o psicoanalitiche, al fine di sottolineare il carattere fatuo e frivolo delle loro vite, mostrandoli sempre come caricature e mai come personaggi di spessore. Il gioco e la fortuna sono imparziali perchè di fronte ad essi è annullata qualsivoglia gerarchia o differenza sociale; tutti si trasformano in grotteschi “mascheroni” da commedia dell’arte, incastonati in un’ammaliante e infida atmosfera carnevalesca: così ad esempio nascono il sadico croupier (Alessio Piazza) e l’opportunista Mademoiselle Blanche (Martina Galletta) che sta con il generale solo per questioni di eredità.
La messa in scena: due piani narrativi in uno
Quest’interessante venatura dello spettacolo è valorizzata dai costumi realizzati da Chiara Aversano, dai colori vivi e appariscenti, e dall’angosciosa, nonché talvolta volutamente molesta, combinazione di luci intense, battiti, cigolii, ticchettii, fruscii: in questa misura lo spettacolo è anche un’esperienza sensoriale, i cui elementi fondanti si intervallano e si sovrappongono, quasi essi stessi alla ricerca di una forma compiuta.
Il carattere multiforme della messa in scena si rileva anche in un’altra felice, per quanto rischiosa, scelta registica: la commistione di due piani narrativi, quella della vicenda del romanzo ed il racconto della sua genesi. Nonostante a tratti macchinoso e poco agevole nel fluire dell’intreccio, il passaggio da un piano narrativo all’altro è un efficace espediente: Aleksej, di tanto in tanto si trasforma in un Dostoevskij vizioso e oppresso dai suoi creditori; Polina, invece, diventa Anna Grigor’evna, prima stenografa poi moglie dello scrittore russo. Così, oscillando tra realtà e finzione, il racconto diventa confessione dal ritmo concitato e vorticoso, coerentemente con il clima coercitivo in cui il romanzo fu partorito.
Nel babelico caos rappresentato si staglia una scenografia immobile e prevalentemente sguarnita, composta di sole due pareti: come questa, anche la vita del giocatore è paralizzata e inconsistente. Scommettere, puntare, bluffare, tutto si riconduce alla scena di apertura: un uomo dal volto coperto costretto su una sedia a rotelle, sospinto avanti e indietro in un movimento sadico e irrazionale da un’inquietante figura con guanti e cappello a cilindro, fino ad una rovinosa caduta.
“Che cosa sono io, adesso? Uno zéro. Che cosa posso essere domani? Domani posso resuscitare dai morti e ricominciare a vivere! Posso trovare l’uomo in me stesso, fino a che non è ancora andato perduto!”.
Info:
IL GIOCATORE da Fëdor Dostoevskij
adattamento Vitaliano Trevisan
regia Gabriele Russo
con Daniele Russo, Marcello Romolo, Camilla Semino Favro
scene Roberto Crea
costumi Chiara Aversano
disegno luci Salvatore Palladino
movimenti scenici Eugenio Dura
produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini, Teatro Stabile di Catania
foto di F. Squeglia