IL GATTOPARDO @ Teatro Brancaccino: Libro in forma di Teatro

Al Teatro Brancaccino dal 6 al 9 aprile, per la rassegna “Una stanza tutta per lei” curata da Daniele Salvo, il romanzo di Tomasi di Lampedusa “Il Gattopardo” ha preso dimensione scenica attraverso il corpo e la voce di Maria Paiato, regia di Giulio Costa.

PAOLA BRIGAGLIA: abbiamo assistituto ad una lettura in 4 serate del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, interpretata da Maria Paiato.

ANNA MARIA MICHETTI L’attrice è entrata per quattro volte, nelle serate dedicate alla lettura de “Il Gattopardo”, sul palco del Brancaccino, elegante e fiera nella sua blusa morbida, ampia e leggera, bianca e nera, a righine alternate e irregolari, con la maestosità, l’imponenza di una dea originaria. Entrava. Davanti a sé il solo leggio, ai suoi piedi, un cubo nero su cui poggiava un pieno e mai sorseggiato bicchier d’acqua.

P.B. Maria Paiato leggeva quest’impegnativa opera di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, requiem per la nobiltà siciliana pre-unità d’Italia, suddividendola in quattro parti.

A.M.M. Ciascun appuntamento durava poco più d’un ora. Lei, fisicamente sola, condivideva la scena con gli innumerevoli doppi creati da un preciso e cesellato lavoro sulle infinite possibilità dello strumento voce. Questi “altri”, la cui dimensione d’esistenza era unicamente acustica, sonora, venivano caratterizzati tanto puntualmente nelle perniciose partiture ritmiche dall’attrice, che attraverso questa lo spettatore riusciva a ricreare nella sua mente, con la sua tanto suggestionata immaginazione, la figura esatta di ciascun personaggio portato in vita o, meglio, portato in voce. Seguendo l’attrice, fedelmente, nelle quattro serate, pian piano lo spettatore entrava in intima confidenza con ciascun doppio, così da trasformare la sempre maggiore riconoscibilità in affetto. Anche gli occhi ad un certo punto si sono trovati a vedere: dalla creazione dell’immagine mentale dovuta alla fantasia stimolata, alla stessa immagine sovrapposta al corpo tangibile di Maria Paiato, tanto che nell’ultimo appuntamento si è assistito ad un fenomeno di vera e propria incarnazione del  doppio, dei doppi, di tutti gli “altri”. Raramente la musica interveniva nel flusso vocale dell’attrice, insinuandosi tra le parole-immagini per colorirne lo sfondo o penetrando nei musicati fonemi per assecondarne sinfonicamente il ritmo.

P.B. Di tanto in tanto la lettura era accompagnata da musiche in sintonia con la scena raccontata, ma anche nei momenti in cui essa taceva, la maestria dell’interprete è stata tale nella narrazione che si rimaneva comunque trascinati e non ci si rendeva conto dello scorrere del tempo.

A.M.M. Le scelte tematiche operate nella selezione dei brani per ciascun appuntamento non sono facili da rintracciare e, tentare di farlo, risulterebbe un’operazione necessariamente macchiata di parzialità, vista tanto la complessità della struttura del romanzo, totalmente novecentesco, quanto le ulteriori scelte registiche sovrapposte nell’esecuzione scenica. Si possono individuare delle direzioni generali presentandole dichiaratamente e onestamente come tali. Primo appuntamento: presentazione dei personaggi, introduzione alle dinamiche dei rapporti tra i diversi membri della famiglia Salina, aristocratica, e di questa con la società a loro contemporanea, immediatamente prossima all’unità d’Italia.

P.B. Nella prima serata siamo entrati in confidenza con l’aristocratica famiglia protagonista del romanzo: il principe Fabrizio di Salina, la principessa Maria Stella, i loro sette figli, il nipote Tancredi e il cane Bendicò. Grazie all’interpretazione molto espressiva e coinvolgente della performer ci sembrava di essere anche noi intorno alla tavola insieme a loro, ad assaggiare la gelatina al rhum, il dolce preferito di don Fabrizio.

A.M.M. A seguire: l’amore (quello di Tancredi e Angelica, quello di Concetta per Tancredi, quello che lega filialmente, ricambiato, Tancredi allo zio Don Fabrizio,…) e l’avvento della borghesia: arricchiti contadini che, cominciando a farsi strada nell’alta società, presto sostituiranno la nobiltà nel prestigio economico e sociale (nella figura di Don Calogero, padre di Angelica).

P.B. Durante la seconda serata ha avuto luogo l’incontro tra Tancredi e Angelica, figlia del sindaco di Donnafugata, dove il principe aveva la residenza estiva.

A.M.M. Terzo appuntamento: la sensualità, la voluttà, la fierezza, la cecità, declinati sia nel microscopico dell’intimità della famiglia Salina (Tancredi e Angelica, neofidanzati, si perdono nel palazzo di Donnafugata, giocando eroticamente a rincorrersi fino a giungere in un appartamento misterioso, nascosto, in cui rinvengono probabili strumenti sadomasochistici. Scappano.), sia nel macroscopico: la Sicilia, i siciliani dal “voluttuoso vagheggiare” sempre colonizzati perché il problema non è “fare bene o fare male” ma semplicemente “fare” (Don Fabrizio invitato da un messo torinese a diventare senatore rifiuta lanciandosi in un monologo in cui descrive il popolo siciliano amaramente, ironicamente come inerte, troppo fiero e orgoglioso per far fronte al cambiamento, in fondo compiaciuto dal suo stesso orgoglio è immobile e cieco mentre tutto cambia, al punto da lasciarsi colonizzare continuamente, da millenni!).

P.B. Nel terzo appuntamento è avvenuto il fidanzamento tra i due giovani innamorati e le riflessioni dell’autore si sono rivolte in grossa parte agli imminenti rivolgimenti politici che avrebbero sconvolto di lì a poco l’immobile equilibrio in cui la Sicilia si era adagiata per secoli.

A.M.M. In ultimo: la morte. Struggenti le parole, struggente Maria Paiato. La morte, personificata in una bellissima donna in abito marrone, coglie Don Fabrizio vecchio e stanco, Gattopardo spelacchiato, rudere di un passato già passato. La sua morte è la morte di un’epoca. Con lui si spegne il prestigio nobiliare della famiglia Salina e dell’aristocrazia tutta come classe sociale dominante. Ultimo di una stirpe, porta con sé nella tomba un’era, con tutte le sue tradizioni, le sue miserie e i suoi splendori.

P.B. Nel quarto e ultimo incontro Maria Paiato ci narra la celeberrima scena del ballo a Palazzo Monteleone e, con un salto temporale di circa vent’anni, ci ritroviamo nel 1883, ad assistere alla morte del principe, consapevole di essere l’ultimo vero Salina e che «après lui» ci sarebbe stato «le déluge».

A.M.M. L’ironia di cui già il romanzo di Tomasi di Lampedusa era pervaso, viene iperbolizzata nel corpo scenico di Maria Paiato, diventando assolutamente tragica. L’inevitabile sorriso del pubblico è ghigno. Lo stesso ghigno che lo sforzo dell’ultimo respiro imprime sul volto del morente.

 

Info

di Giuseppe Tomasi di Lampedusa

regia Giulio Costa

con Maria Paiato

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