Il Teatro Ghione ha appena sgomberato quel palco già piazza dell'incontro riuscito dei due Lucio di Sebastiano Somma per ospitare un altro incontro e duello: morte e vita condensate in una mono esistenza, quella di Mattia o Adriano. Un uomo. Due nomi. Due storie dentro e fuori il medesimo corpo. Claudio Boccacini, regista di razza e autore di lavori riuscitissimi (chi vi scrive lo ricorda ancora per quel Giardino dei ciliegi all'Ambra Garbatella), riduce in drammaturgia il celebre romanzo di Luigi Pirandello e lo dirige: Il Fu Mattia Pascal. In scena fino al 3 marzo 2019 .
La scrittura è concertata a due mani: c'è anche Eleonora Di Fortunato ad adattare il lavoro del premio nobel. In scena: Felice Della Corte, Titti Cerrone, Siddhartha Prestinari, Paolo Perinelli, Maurizio Greco, Marco Lupi e Livia Lucina Ferretti.
Il romanzo nasce agli albori di un neonato secolo: nel 1903. La trama è nota. L'abbiamo ascoltata. Vista. Letta. E per nostra fortuna. “Una della poche cose, anzi forse la sola ch'io sapessi di certo era questa: mi chiamavo Mattia Pascal”.
Il romanzo esordisce così, da subito, senza rimandi e pone le laconiche ma robuste premesse che istigano il dubbio sulla convinzione migliore d'ogni essere umano che viva: l'identità individuale. Una serie di avvenimenti porterà il protagonista a considerarsi “fu”. L'identità viene frantumata, vivisezionata come carne da macello, e le certezze dissipate dall'ordine sociale. La morale collettiva staglia la sua ombra potente e fosca sopra la fiumana di vite costrette alla doppiezza; ripresa più volte dalla poetica pirandelliana della maschera. Figlio di questa corrente è l'altro romanzo: “Uno, nessuno e centomila”, di recente portato in scena da Enrico Lo Verso e ancora prima da Giuseppe Pambieri. Pascal è dunque gemello di Moscarda, anche questo ha ereditato una fortuna, e anche questo ha un difetto: il primo all'occhio, l'altro al naso. Sono due antieroi che comunque necessitano di vivere in mezzo a tutto e tutti.
Mattia mette incinta la nipote, affronta il matrimonio riparatore imposto dal costume di inizio secolo dentro il quale è ambientata la storia; subisce una tragedia familiare: la perdita delle due figlie. Tutte questioni rilevanti qui gravemente tralasciate, che l'autore aveva preparato ad arte per giustificare il gesto inusuale e sconsiderato del protagonista di abbandonare il proprio nome e vita. Si mette in rilievo, in questa pièce, solo il tracollo familiare di Mattia che non sa amministrare l'eredità dopo la morte del padre, è qui che taglia le radici e cambia vita. Recide di netto il passato e si infila nel futuro. Nell'abbandono del nome c'è per intero il fallimento esistenziale dell'individuo. Approfitta e trova il coraggio, Mattia, grazie ad una serie di eventi: l'enorme vincita milionaria, un viaggio lontano ed essere stato intanto identificato in un cadavere (putrefatto: ma qui non si dice anzi si pone solo l'accento sul fatto che né la moglie, né la suocera lo hanno riconosciuto o voluto riconoscere). Un suicidio si pensa con la sufficienza tipica di certe questioni che riguardano non solo i romanzi. Errore accolto dal nostro personaggio ma anche soluzione che verrà adottata e poi reiterata nell'abile messinscena per porre fine ai legami. Adriano Meis diviene l'alter ego di Mattia Pascal. La via facile di fuga. Il sentiero erboso. In quel buio che è l'umanità, il nuovo vestito è la luce. Il lanternino… per dirla alla Pirandello o meglio la “lanterninosofia” che Boccaccini rappresenta in scena con l'uso magistrale di fumo e luci rarefatte, queste, in mano agli attori.
Ma il porto franco non è scevro di scadenze: i dazi nuovi non tardano ad arrivare. Le convenzioni sociali, gli affetti, la quotidianità: schiacciano nuovamente il nostro indolente Mattia, avulso da ogni legame e responsabilità. Dunque il finto suicidio è di nuovo la chiave della libertà. La soluzione di sempre, già collaudata ed efficace, è inevitabile quando manca il coraggio del confronto e la battaglia tra singolo e collettività si fa forte. Impari.
Al ritorno a Miragno, (paese dal quale è evaso), Mattia trova una situazione inaspettata: la moglie si è sposata forse incoraggiata dalla madre o suocera. Il redivivo non può che assistere al suo funerale e diventare suo malgrado il “fu” Mattia Pascal. Da qui il titolo. I due suicidi non lo hanno liberato, ma cancellato.
Macabro ma eloquente nel romanzo è il fatto che a Mattia rimane solo lo svago di visitare la propria tomba. Elemento forte e teatrale che viene anche questo omesso nell'idea dell'adattamento di Boccaccini e Di Fortunato.
Gli adattamenti, le riduzioni sono già di per sé (come suggerisce la stessa etimologia del termine) delle trasformazioni restrittive di opere spesso colossali. Importanti. Censure involontarie di capolavori che appartengono come bene alla collettività. E' coraggioso da parte di tanti drammaturghi, sceneggiatori, avventurarsi in certe operazioni chirurgiche che non sempre restituiscono intatta l'idea di chi le ha partorite e ne rimane il padre indiscusso. Il titolare del pensiero originario. Capiamo che si è tentati di portare in visione certi romanzi che diversamente rimarrebbero solo carta e non godrebbero di quel privilegio che invece hanno le commedie teatrali: le parole in bocca agli attori hanno un ben altro sapore e odore. Luce. Riflesso. Quindi apprezziamo lo sforzo ma molto del significato, qui, è rimasto inespresso o custodito dal romanzo nativo.
Anche l'interpretazione, ci sembra, non contribuire a restituire il tormento di Pascal, che rimane inerme davanti a tutti gli accadimenti che devastano ed edificano rispettivamente la sua vecchia e nuova esistenza. Abbiamo detto che il protagonista è un essere indolente ma questo non significa che è insensibile. Felice Della Corte (Mattia) rimane compassato, e con lui il personaggio, dentro movimenti flemmatici, non ha slanci, sembra non soffrire e neanche godere di quello che il caso gli sta presentando.
Non capiamo se l'andamento lento è dato dall'attore o dal personaggio come voluto dal regista in questa messinscena, quindi potrebbe trattarsi d'una scelta di Boccaccini, ma ci sembra comunque poco credibile che un essere umano per quanto vanesio e inconcludente, rimanga sempre serafico e sempre sulla medesima corda anche quando i fatti suonano invece tutte le note del pentagramma. In fondo si è liberato da una prigione, ha trovato una donna che lo ama. Forse c'è tutta la tensione della prima, di un lavoro importante e di un Teatro Ghione che terrorizza per quanta bellezza e imponenza. Questo Pascal arriva alla platea con una mitezza che stride e contraddice la stoffa del personaggio così come fu tagliata da Pirandello in quel lontano '900. Poche intonazioni. Qualche incertezza perdonabile. Un mono-tono che che diventa a tratti litania e scoraggia l'attenzione dello spettatore.
Ci piace moltissimo l'idea di una scena grottesca che ricorda il teatro dell'assurdo e rivela il significato della “lanterninosofia” (e molto altro) con gli attori schierati in batteria come certe amare marionette già nominate in questo contesto, e con in mezzo il povero Mattia o Adriano in carrozzella, bendato perché reduce da un intervento agli occhi utile a curare lo strabismo; indizio palese, troppo, della vecchia identità ormai rinnegata e da sotterrare nell'abile gioco mimetico.
La perfomance della gitana in costume folcloristico stereotipato (la brava Livia Lucina Ferretti) lascia il pubblico adulato e divertito, molto, moltissimo, ma lo istiga a pensare che l'autore scriveva commedie comiche: Pirandello si serve solo dell'umorismo crudo e amaro e ne scrive anche un famoso saggio per chiarirne la natura e distinguerlo. Neanche Cecè guarda alla comicità per quanto buffo e goffo. Quindi ci sembra un'ottima operazione commerciale, godibile, che usa un titolo noto ma anche strumenti sconosciuti all'autore siciliano: la comicità (degna di rispetto) i doppi sensi (un po' meno), che oggi purtroppo sono esca prelibata, spesso necessaria per infoltire le platee dei teatri anche in considerazione dei tempi tristi e contingenti. Ma questo non è Pirandello. E' un'altra cosa.
Attore di caratura, straordinario qui nel ruolo grottesco del padrone di casa e letterato è Paolo Perinelli. Convince e rapisce quando è intento a perorare la causa della “lanterninosofia”. Si dimena, si appassiona, si vergogna di quel furto avvenuto tra quelle mura oneste e dignitose. Affonda nel suo mare di libri e ne affiora, anche quando sostiene che la cultura è una malattia e lui ha dentro quel virus malefico e benefico che apre gli occhi e ti costringe a voli pindarici, alti, gli stessi che avremmo voluto vedere nel pacioso Mattia anch'egli vissuto tra i libri per mestiere; ma qui l'effetto è stato diverso. Non c'è piglio ma c'è il coraggio della fuga? ecco perché il contrasto lascia un sapore agrodolce sulla bocca dello spettatore. Ma forse è solo la trappola dello stereotipo che il regista ha scansato; un po' come l'altro luogo comune dell'abito rosso e nero della spagnola, al quale però non ha saputo rinunciare.
Vero e credibile Maurizio Greco, voce fuori scena, ma non fuori campo: sul proscenio, anch'egli sommerso dal sapere e da altri libri voluminosi. Probabilmente è la voce della coscienza di Pascal col quale dialoga spesso e lo aiuta a fare i conti, quelli della vita, che a volte non tornano per quanto ingarbugliati.
Titti Cerrone, qui Adriana, la “lei di turno” che si innamora dell'ex Mattia, ci mette grinta ma rimane su un'interpretazione tecnica, pulita, non di stomaco, non di cuore. Forse anche su di lei, incombe il peso e la tensione della prima e di quel palco di mostri sacri. Siddharta Prestinari ci diverte, ma anche lei viene sedotta dalle avance della comicità e dai suoi tempi e codici. Marco Lupi recita bene ma con enfasi il ruolo del malfidato che scava nel passato contraddittorio del sedicente Adriano Meis privo di documenti.
Scenografia essenziale, emozionale ed evocativa di quella cultura e di libri che fanno da sfondo alla storia. Libri di varia misura: troppo grandi e troppo piccoli forse a dire che non sono facilmente accessibili e alla portata di tutti, altri, questa volta giusti e veri, quasi sul proscenio. La cultura come malattia. I libri come veicolo del contagio e intanto, in mezzo, dentro: le esistenze, le pulsioni e i desideri dei personaggi.
Le luci sono di grande effetto. Ci sono fasci conici dentro i quali i personaggi, a volte, si infilano e vomitano il loro disagio esistenziale in una danza tribale sincronizzata ad arte dall'attento Boccaccini. C'è una cornice di libri a tutta altezza di colore cangiante. C'è una luce tenue che si infila dentro un fumo profumato che alimenta la poesia della pièce.
Certamente una serata di Teatro curato, d'effetto, di livello: ma quando ci si confronta con certe misure, il risultato può lasciare la delusione dell'aspettativa se in mente si ha ben chiaro il Kaos…
Info:
Dal 26 Febbraio al 3 Marzo
di Luigi Pirandello
con Felice Della Corte, Titti Cerrone, Siddhartha Prestinari, Paolo Perinelli, Maurizio Greco, Marco Lupi, Livia Lucina Ferretti
adattamento Eleonora Di Fortunato, Claudio Boccaccini
regia Claudio Boccaccini