IL CIELO NON è UN FONDALE @Teatro Fabbricone: un'indagine sulla nostra realtà sociale

La coppia artistica Deflorian-Tagliarini approda al Fabbricone di Prato con IL CIELO NON è UN FONDALE, spettacolo atteso dopo il debutto svizzero al Théâtre Vidy, Losanna, le date al Romaeuropa festival e il successo di Parigi al Odeon Théâtre de l’Europe e Festival d’Automne. Daria Deflorian e Antonio Tagliarini sono autori, registi e interpreti dei loro progetti artistici dal 2008, salgono alla ribalta omaggiati dalla critica teatrale con “Reality”,  che ha debuttato al Festival In-equilibrio di Castiglioncello nel 2012, e “Ce ne andiamo” per non darvi altre preoccupazioni che nel 2014 vince il Premio UBU per la ricerca drammaturgica o migliore novità italiana.

IL CIELO NON è UN FONDALE vede in scena oltre agli stessi Deflorian e Tagliarini, Francesco Alberici e Monica Demuru, voce splendida che oltre al ruolo di attrice delizia il pubblico con il suo sapiente e ottimo canto.

La scena nello spoglio Teatro Fabbricone si presenta completamente vuota, ad eccezione di un fondale nero mobile e un termosifone di ghisa bianco sul lato; le luci a neon basse sono accese, insieme ai fari bianchi e freddi, gli attori già nello spazio scenico, attendono l’ingresso del pubblico, appoggiati alla parete, quasi non si fanno notare nel cubo nero del teatro. Nessuna concessione alla finzione, nessun artificio, anche l’incipit dello spettacolo nega ogni aspettativa di immaginazione: Daria Deflorian con voce sommessa annuncia al pubblico che lo spettacolo sta per cominciare e chiede alla platea di chiudere gli occhi per pochi secondi, quando verrà richiesto dagli attori in scena.

L’introduzione è affidata alla voce di Monica Demuru con una splendida versione a cappella de “Il Cielo” di Lucio Dalla, Monica canta il tema della performance: “la terra finisce e là comincia il cielo”, la connessione tra il proprio quotidiano, ciò che è noto e per questo anche rassicurante, la terra, e il cielo, ovvero tutto ciò che è esterno, l’ambiente intorno a ciascuno di noi, fatto della città, dei suoi rumori, la gente, l’altro, l’estraneo, lo sconosciuto, che rappresenta quello di cui si ha paura, da cui ci si tiene a distanza.

Quasi non ci si accorge che lo spettacolo è già iniziato. Gli attori, senza nessun cambio di luce, di energia, di finzione, di immaginazione, iniziano a raccontare e a raccontarsi, chiamandosi coi loro  stessi nomi, inondano la scena delle loro esperienze, pensieri, ricordi e riflessioni, attingendo alla propria memoria: affrontano se stessi per poter capire il mondo attraverso i propri fallimenti, le proprie paure, insicurezze e angosce.

L’avvio creativo ha inizio col racconto di un sogno: Antonio cammina sotto la pioggia con un ombrello, avanza su una strada di Roma, ha l’alopecia, confessa la propria ansia di perdere i capelli, vede una barbona con tutte le proprie cose attorno, con lo sguardo perso, confusa, la guarda e prosegue a camminare, si ferma, torna indietro a guardarla, riconosce Daria in quella donna abbandonata sulla strada, la guarda, la riconosce, ma non si ferma, e va via. Lo spettacolo prende il via sulla domanda di fondo di Antonio: “perchè non mi sono fermato?”.

Pezzi di monologhi di Daria, Antonio, Francesco e Monica si intrecciano e danno vita ad una rete infinita di parole, novanta minuti in cui ciascuno parla di sé, racconta frammenti della propria vita come unico centro di interesse e di attenzione. Daria lo dichiara apertamente: “ciascuno parla del proprio io obeso”, si succedono le angosce affrontate nella vita dai quattro, ma in fondo ansie comuni allo stesso pubblico.

La paura di perdere la lucidità e l’efficienza nella figura della barbona all’angolo della strada; l’ansia del proprio fallimento raccontata da Daria, cameriera insoddisfatta che fuma fuori dal locale e pensa al proprio bisogno di successo, anzi di vera e propria gloria, che non arriva; lo stordimento tra i rumori della grande città che isola Monica nella musica; la fragilità del proprio corpo vittima di un grave incidente che costringe Antonio fermo per mesi con i ferri nelle gambe; la miseria umana di una periferia residenziale nel racconto di Antonio con gli abitanti terrorizzati dall’invasione di un centro di accoglienza per migranti.

A volte seri, a volte poetici, a tratti anche comici nelle piccole manie quotidiane, ironici e irriverenti, i racconti mettono a nudo gli attori, come quattro confessioni, miserie di luoghi comuni, indagano attraverso se stessi la solitudine e l’infelicità delle metropoli, dove nessuno vede più nessuno, il mondo dei reietti, degli invisibili, dei falliti. Usando i propri racconti, le proprie pause e fallimenti, Deflorian e Tagliarini ci costringono a chiederci se quei rifiuti della grande città non siamo anche noi stessi.

IL CIELO NON è UN FONDALE porta all’estremo l’assenza di teatro in teatro, forza al massimo la finzione scenica negandola completamente, con la disarmante sincerità della banalità del vero, usa la parola, la dinamica dei corpi nello spazio, l’alternanza delle posizioni, le pause, le espressioni. Non si avvale di nessun aiuto, nessuna dimensione narrativa, non una situazione, una storia come base di riflessione, né personaggi, costumi, luci, scene. Non c’è un buio di interruzione della scena, assenza sottolineata dalla richiesta di chiudere gli occhi per far cambiare posizione agli attori. Niente insomma, neanche un fondale.

La miseria umana tocca il massimo tragicomico nella voce da supermercato di Monica che con l’espressione da spot recita “ti manca un projet de vie? un centro di gravità permanente? Prendi la nostra Carta Fedeltà!”, a cui segue una coreografia senza musica che ugualmente suscita il riso amaro del pubblico, e infine l’esposizione della teoria del termosifone, al limite del ridicolo, secondo cui sarebbe bene invadere le città di termosifoni a cui stare tutti attaccati, per il freddo che c’è fuori di sé.

La corda in questo spettacolo è tirata al culmine della sopportazione, le storie raccontate rischiano di non uscire dall’aneddoto personale, dalla complessa riflessione fine a se stessa: al termine della lunga performance si apprezza certamente il tentativo di una indagine, spogliata del tutto della teatralità, sulla realtà sociale delle nostre città, sulla relazione di ciascuno di noi con ciò che ci è estraneo.

Info:
Visto il 9 febbraio 2017 al Teatro Fabbricone, Prato

IL CIELO NON È UN FONDALE
di DARIA DEFLORIAN, ANTONIO TAGLIARINI

con Francesco Alberici, Daria Deflorian,
Monica Demuru, Antonio Tagliarini
collaborazione al progetto Francesco Alberici, Monica Demuru
testo su Jack London Attilio Scarpellini
assistente alla regia Davide Grillo
disegno luci Gianni Staropoli
costumi Metella Raboni
costruzione delle scene Atelier du Theatre de Vidy
direzione tecnica Giulia Pastore
accompagnamento, distribuzione internazionale Francesca Corona
organizzazione Anna Damiani
produzione Sardegna Teatro, Teatro Metastasio di Prato, Emilia Romagna Teatro Fondazione
Produzione con Odéon – Théâtre de l’Europe, Festival d’Automne à Paris, Romaeuropa Festival, Théâtre Vidy-Lausanne, Sao Luiz – Teatro Municipal de Lisboa, Festival Terres de Paroles, théâtre Garonne, scène européenne-Toulouse

con il sostegno di Teatro di Roma
in collaborazione con Laboratori Permanenti / Residenza Sansepolcro, Carrozzerie NOT / Residenza Produttiva Roma, fivizzano27 / nuova script ass. cult. Roma

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