Dopo la prima dedicata a Brecht seguita dalla trilogia di Sinisi, entrambi recensiti da Gufetto, la Fondazione Teatro Metastasio di Prato prosegue la stagione con una prima assoluta al Teatro Fabbricone. Su testo di Rita Frongia e regia di Claudio Morganti in scena IL CASO W. ispirato al caso giudiziario del barbiere disoccupato e senzatetto che fu condannato a morte per l’omicidio dell’amante a Lipsia nel 1824. Tra giustizia e giustizialismo va in scena l’amara farsa di un processo dove ognuno può sentirsi imputato.
A svelarsi passo dopo passo agli occhi degli spettatori è un’aula di tribunale con arredi e suppellettili provvisori, quasi instabili, dove non basta il motto “La legge è uguale per tutti”, sovrastante a caratteri cubitali, per convincerci che quel tribunale possa rappresentare una giustizia autorevole agli occhi del cittadino. Tanto meno che possa rappresentare la Giustizia. Una cattedra affiancata da un banchino da scuola elementare per giudice e cancelliere, due scarne scrivanie per gli avvocati e una pedana per i teste. Intorno il vuoto che solo raramente si riempie con le luci. Durante l’intero spettacolo sono gli occhi di bue a farla da padroni come se ogni personaggio, nonostante le interazioni continue, restasse in definitiva individualisticamente refrattario al mondo intorno.
Imputato al processo il barbiere senzatetto disoccupato Johann Christian Woyzeck che, sottoposto a perizia “psichiatrica” due volte dallo stesso medico fu dichiarato schizofrenico e depresso; ritenuto colpevole dell’omicidio della donna con cui stava intrattenendo una relazione, minata dai continui tradimenti di lei. L’uomo fu giustiziato nel 1824 a Lipsia. A partire da Büchner, che studiò le carte del processo ricavandone una drammaturgia, è sempre apparso evidente l’intento repressivo di una condanna che doveva apparire esemplare in nome di un diffuso giustizialismo.
Uno dopo l’altro i teste si presentano e vengono interrogati dai due avvocati, interpretati da Francesco Pennacchia e Gaetano Colella, con l’intento di sviscerare il profilo psicologico di Woyzeck, carpendo le controverse sfaccettature del suo carattere e di quell’inconscio a cui Freud all’epoca del processo non aveva ancora dato un’ufficialità scientificamente riconosciuta. La vittima pertanto non è più la donna uccisa in un vero e proprio femminicidio e di cui a malapena lo spettatore sente rammentare il nome, ma quell’uomo che con la sua dimessa e commiserevole presenza resta seduto. Presenza che, tranne per un paio di interventi inascoltati, diventa sensibile grazie al respiro cadenzato che attraverso i microfoni inonda costantemente lo spazio, unico elemento umano nella farsa che si sta svolgendo davanti ai nostri occhi e a quelli di una comunità solo affamata di colpevoli su cui scaricare il proprio profondo disagio. Anche le lacrime diventano dichiaratamente solo acqua e non sgorgano da occhi capaci di pianto e quindi di pietà. Nemmeno la pena può salvare l’imputato.
Se oramai la verità è già scritta, la giustizia lascia spazio al giustizialismo con l’obiettivo non più di giudicare il reato ma l’uomo come se l’entità delle azioni commesse diventasse secondaria e si volesse punirlo per il semplice fatto di esistere. Il vile obiettivo di commiserarlo non rende così onore né a lui, che resta comunque un essere umano debole, né alla donna su cui il processo dovrebbe concentrarsi, lasciando che facciano il loro ingresso anche quei bassi istinti che il diritto dovrebbe aborrire perché dimostrazione di ignoranza e superficialità. L’inclinazione alla seduzione di un prestante e virile militare, ostentata fino all’arroganza, e soprattutto la scaramanzia caratterizzano gli interrogatori dove il confronto tra gli avvocati scade nel battibecco becero condito con esibizioni degne di un avanspettacolo di basso livello. Se poi anche il giudice, interpretato da Claudio Morganti, manca di autorevolezza e non riesce a pretendere neanche che i teste leggano la formula di rito prima della deposizione, il quadro assume irrecuperabilmente contorni surreali. Con la comparsa dello spettro di morte della vittima sul finale si completa la farsa e si esce convinti di aver assistito ad un processo nel processo in cui il ruolo di carnefice si confonde con quello della vittima. Nel buio incombente il fendente di chiusura può aver colpito la donna, l’uomo o tutti noi che restiamo lì seduti e non ci rendiamo conto che quella stessa giustizia fatta di intermezzi musicali e di sensazionali occhi di bue potrebbe vederci un giorno imputati al pari di Woyzeck.
Un’attenta cura del testo, opera di Rita Frongia, che è pure comparsa nel ruolo della vittima sul finale, ha costituito a nostro parere un importante punto di forza dello spettacolo a supporto di un testo farsesco che a tratti ha assunto toni stridenti laddove i teste, privi di sensibilità e di dolore, hanno esaltato i loro difetti fin quasi all’esasperazione. Complessivamente apprezzabili le prestazioni attoriali a partire dai testimoni chiamati in aula: dalla collega della vittima, interpretata da Isadora Angelini, al militare vittima di una mina nei cui panni si è cimentato Gianluca Stetur, passando per il militare compagno di stanza di Woyzeck (Luca Serrani) e per la madre della vittima, ovvero una Paola Tintinelli che stride straordinariamente con la freddezza del contesto grazie al suo variopinto ed improbabile ruolo. Sono i toni del grigio e del nero a dominare la scena per cui neanche l’abile ed efficace gioco di luci, curate da Fausto Bonvini, riesce a dare colore ai personaggi, a partire dal cancelliere, interpretato da Massimiliano Ferrari, fino al giudice impersonato da Claudio Morganti, che ha firmato anche la regia. Molto efficaci gli scambi tra i personaggi in un testo che prevede un buon numero di attori, ormai una rarità nel teatro contemporaneo, così come abbiamo apprezzato le geometrie dei movimenti nello spazio. Talvolta il meccanismo scenico ci è apparso fin troppo lineare e non avremmo disdegnato qualche trovata più sorprendente, ma nell’ottica di una farsa contemporanea non lo si può considerare un vero e proprio difetto. Infine, e non certo per importanza, un plauso alla prestazione di Gianluca Balducci nei panni di un Woyzeck perennemente fuori posto perché incapace di concepire la logica di chi lo sta giudicando.
Ci piace pensare che la lettera W. del titolo, un riferimento così generico al nome dell’imputato, richiami per fortunata coincidenza il pronome anglosassone Who ad indicare, da una parte, l’impossibilità di capire chi è vittima e chi è carnefice, e dall’altra il fatto che quell’imputato potrebbe essere ognuno di noi. Per dirla con le parole del partenopeo avvocato dell’accusa (Gaetano Colella), quella di Woyzeck “è una storia accussì” e forse per questo molto del pubblico in sala ha espresso ilarità per le caricature che si susseguivano sul palco. Noi abbiamo però percepito soprattutto il risvolto più agghiacciante di quanto accadeva davanti ai nostri occhi, fortemente stridente rispetto alle risate provenienti dalle poltroncine. Di fronte alla demolizione della giustizia, fondamento della convivenza civile, la legge resta “uguale per”, consapevoli che i diritti spettanti a quell’ormai penzolante “tutti” sono ben lontani dall’essere garantiti.
Info:
IL CASO W.
di Rita Frongia
regia Claudio Morganti
con Isadora Angelini, Gianluca Balducci, Gaetano Colella, Massimiliano Ferrari, Rita Frongia, Claudio Morganti, Francesco Pennacchia, Luca Serrani, Gianluca Stetur, Paola Tintinelli
luce Fausto Bonvini
organizzazione Adriana Vignali
produzione Teatro Metastasio di Prato, TPE-Teatro Piemonte Europa, Armunia-Castiglioncello, Esecutivi per lo spettacolo
Teatro Fabbricone, Prato
7 novembre 2019
PRIMA ASSOLUTA