Possiamo guardare negli occhi l’orrore e continuare a mangiare come i corvi. Questa l’amara sensazione che ci resta al termine della visione de IL CANTO DELLA CADUTA il nuovo spettacolo di Marta Cuscunà, una coproduzione internazionale in scena al festival del contemporaneo Materia Prima al Teatro Cantiere Florida di Firenze.
Nel silenzio del vento che soffia tra le cime delle Dolomiti, spostando le nuvole che fanno da cappello alle vette, Marta si arrampica sulla struttura di metallo che fa da scenografia, per andare a dare voce e anima ai corvi. Due catene di montagne a destra e a sinistra in tubi di metallo fine e freddo, al centro la composizione che racchiude lo spettacolo, come il teatro elisabettiano, comprende il cielo e gli inferi. Sopra i corvi di metallo, simili a divinità greche guardano dal cielo gli accadimenti umani, ne restano distanti, osservano, commentano, raccontano l’orrore e le disperazioni, che non li toccano. Sotto, nella cavità tetra dell’armatura di ferro, l’oscuro rifugio dei bambini-topi, inferi bui, dove vivono in una eterna attesa del tempo promesso, gli ultimi fragili sopravvissuti, sepolti come in Underground di Kusturica. In mezzo non si palesano gli esseri umani, ma le loro parole sono scritte su uno screen luminoso: di essi è rimasto solo questo. Futuro apocalittico o passato remotissimo? Marta Cuscunà rielabora l’antico mito ladino del Regno di Fanes che narra di un arcaico tempo di matriarcato in cui la pace dominava in armonia con la natura, finché la guida non passò ad un principe straniero che mise fine a questo Eden, sciogliendo l’alleanza con il regno delle marmotte, accecato dall’ambizione di potere portò il suo popolo allo sterminio, in nome della guerra. Restarono alcuni bambini, sette maschi e sette femmine, custodi della leggenda delle antenate, a vivere per millenni nelle viscere delle terre dolomitiche. Forse i bambini sono diversi, a questi è affidata la rinascita, mascherati con teste di topo sulla testa – perché i cecchini non sparano ai topi – restano nell’eterna speranza del ritorno del tempo di pace con pazienza immortale.
È possibile un destino dell’umanità senza guerra? Ormai crediamo che la scia di sangue che ci lasciamo alle spalle sia parte della natura umana, che homo homini lupus sia l’unico panorama possibile. Nel mito ladino questa visione senza scampo si capovolge: se qualcuno si ricordasse com’era il tempo prima della caduta delle dee, potrebbe decidere di tornare indietro. Amargi, la prima parola che descrive il concetto di libertà, legato alle donne e alla discendenza femminile, compare nell’antica Sumera tremila anni avanti Cristo – in quelle terre di Mesopotamia che sono teatro di guerra costante nella storia recente – finché il patriarcato, l’esercito perenne di una società androcentrica, divengono la prima pietra del moderno sistema di potere. La differenza di genere si trasforma in supremazia e dominanza, invece che arricchimento per rapporti basati sull’uguaglianza. Il riferimento ad un passato armonioso viene dogmaticamente rigettato come assurdo e impossibile. È più comodo pensare che non ci sia possibilità di cambiamento. Non c’è menzogna più grossolana, affermano i saggi corvi. I diritti di parità delle donne, e in generale delle minoranze, sono una questione che riguarda l’umanità e il suo destino. Perché una società più giusta è un posto migliore per tutti. Domisillla, erede del regno in linea materna, viene mandata dal padre a morire sul campo per scongiurare la successione, ma nel mezzo della battaglia compare l’amore, sotto forma di un mazzo di papaveri, che sovverte l’ordine gerarchico in favore della pace e della collaborazione. Questo possono le donne. Qual’è il mio destino? Guarda tuo padre. Ma nella battaglia finale ogni speranza è cancellata. L’armatura bianca della principessa diventa rossa di sangue e nera di morte nel racconto del massacro. Le donne e i bambini sono gettati nell’agone per vincere la battaglia. Il sacrificio degli infanti – che richiama numerose mitologie e tradizioni, compresa quella cristiana – le immagini evocate dei Fanes che uccidono i figli, riescono ad essere potenti e strazianti più del reale e del rappresentato.
Forte è il contrasto tra l’antico e il moderno nella narrazione, tra l’arcaico mito e la contemporaneità della guerra costante a cui assistiamo, tra fiabe ancestrali e riflessioni universali sull’utopia della pace come possibilità concreta perché già esistita. La dicotomia visiva e narrativa è una delle chiavi più interessanti dell’originale elaborazione della Cuscunà. Le macchine animatroniche di ingegneria futuristica dei corvi sono in opposizione ai materiali lignei dei burattini che raffigurano i bambini. Neri in alto gli uccelli di ferro, con fili d’acciaio visibili, nudi, dalla tecnologia svelata; e in basso, nel semibuio del pertugio tana dei piccoli superstiti, il bianco sporco delle due minute figure indistinte che sembrano legate l’uno all’altra, di cui una gamba è quella della stessa attrice. Anche le voci, tutte realizzate dal vivo dall’attrice, li distinguono in due mondi incomunicabili: i corvi sono sprezzanti, superiori, distaccati, spesso buffoneschi nelle gag in cui si becchettano tra loro, si offendono con divertenti paragoni uccelleschi; le voci dei bambini sono invece sofferte, soffiate, sussurrate, portano l’oscurità della notte, la lentezza dell’attesa eterna. Eppure le macchine apparentemente fredde, i corvi che vivono mangiando le carogne lasciate dalle battaglie, sono gli esseri che si domandano come sia possibile questa realtà, sono l’elemento di dubbio da cui ci sentiamo scrutati nel buio della sala, quando si voltano verso di noi, paiono avere occhi di falco, e non becchi di corvi di ferro.
Lo spettacolo ha avuto una lunga ed elaborata maturazione, di cui porta con sé la complessità. Innanzitutto dal punto di vista dei temi, sviscerati attraverso numerosi citazioni e riferimenti (Riane Eisler, Marija Gimbutas, Karl Felix Wolff, von Kleist) per essere resi in una drammaturgia leggera e scorrevole. L’impianto scenografico è d’impatto e realizzato con grandissima cura da Paola Villani, molto più che una scenografa con cui Marta Cuscunà rinnova la collaborazione. La animazione delle sofisticate marionette, ormai ben oltre il semplice movimento, si realizza per mezzo di joystick che comandano sette movimenti ciascuno per ogni corvo, dando la sensazione di vita alle macchine, tanto che ogni corvo pare avere una propria personalità. I bambini-topi seppur appaiono più tradizionali nella fattura, hanno una naturalezza espressiva nonostante i volti immutabili di legno. Il lavoro sulle voci è davvero convincente: nonostante stavolta la presenza dell’attrice sia totalmente a vista, ancora una volta si stenta a credere che tante voci, rumori e dialoghi siano frutto di un’unica persona.
Ci appare con una stretta al cuore più forte dei suoi spettacoli precedenti Marta Cuscunà. Ondina Peteani, la staffetta partigiana raccontata in È bello vivere liberi, nonostante l’epilogo tragico della deportazione ad Auschwitz, conserva l’afflato della lotta, lo slancio dell’impegno e dell’utopia. Gli spettacoli della Trilogia sulle resistenze femminili, di cui fanno parte anche La Semplicità ingannata e Sorry, Boys (recensito lo scorso anno al Teatro di Rifredi) insinuano nelle coscienze temi importanti passando dalla leggerezza alla filosofia, dalla vicinanza alla comprensione dei punti di vista, senza giudizi inappellabili. Il canto nero funebre che è portato in scena stavolta ignora la dimensione umana, la racconta, ma non la rappresenta, quasi a non lasciare più la possibilità della comprensione. “Ho paura del domani…” “Mangia.” I corvi metallici, macchine spoglie di altissima ingegneria, osservano il campo di battaglia, raccontano e mangiano i cadaveri delle proprie narrazioni. La scena del massacro dei bambini è narrata come una radiocronaca sportiva di una battaglia di lance e fiamme, l’orrore è filtrato dalle parole degli uccelli e per questo ancora più feroce. Andiamo con la mente ai reportage di guerra guardati distrattamente durante la cena, i corpi senza vita nel mare mentre infiliamo in bocca un calamaro, le macerie degli ospedali siriani quando arrotoliamo gli spaghetti. “Possono convivere con il cadavere di un bambino, alle porte del loro magnifico regno, ma non possono sopportare che noi, sapendolo, li guardiamo negli occhi”. I corvi piegano il capo e mangiano.
Domani potrebbe essere tardi. Marta Cuscunà è una combattente, le sue armi sono l’impegno e la poesia. Siamo seduti sulle poltrone della platea, con la luce sparata negli occhi a più riprese, come se volesse scuoterci dal sonno delle coscienze di chi è rassegnato a vivere nel vuoto di senso di un mondo popolato di guerra e odio. Domani potrebbe essere tardi, ci dice al termine dello spettacolo, invitandoci ad andare a Verona a manifestare contro lo stupido e pericoloso Congresso internazionale della famiglia. Siamo con lei il giorno dopo nella marea di libertà di Verona, ma con una terribile stretta al cuore.
IL CANTO DELLA CADUTA Liberamente ispirato al mito del Regno di Fanes
di e con Marta Cuscunà
progettazione e realizzazione animatronica Paola Villani
assistente alla regia Marco Rogante
progettazione video Andrea Pizzalis
lighting design Claudio “Poldo” Parrino
esecuzione dal vivo luci, audio e video Marco Rogante
costruzioni metalliche Righi Franco Srl
partitura vocale Francesca Della Monica
assistente alla realizzazione animatronica Filippo Raschi
distribuzione Laura Marinelli
co-produzione Centrale Fies, CSS Teatro stabile d’innovazione del Friuli Venezia Giulia, Teatro Stabile di Torino, São Luiz Teatro Municipal | Lisbona
in collaborazione con Teatro Stabile di Bolzano, A Tarumba Teatro de Marionetas | Lisbona
residenze artistiche Centrale Fies, Dialoghi – Residenze delle arti performative a Villa Manin, São Luiz Teatro Municipal, La Corte Ospitale
con il contributo del Centro di Residenza dell’Emilia-Romagna L’arboreto-Teatro Dimora | La Corte Ospitale
sponsor tecnici igus® innovazione con i tecnopolimeri, Marta s.r.l. forniture per l’industria
Marta Cuscunà fa parte del progetto Fies Factory di Centrale Fies
Teatro Cantiere Florida
28 marzo 2019
Materia Prima 2019
Making of il canto della caduta from Marta Cuscuna on Vimeo.