Il nostro Enzo@Teatro Elfo Puccini Milano

Al teatro Elfo Puccini di Milano fino al 10 gennaio 2016, Enzo Jannacci ritorna fra quelli che hanno amato le sue canzoni grazie a Il nostro Enzo ricordando Jannacci, un recital di parole e musica, splendidamente interpretato da Moni Ovadia a lui legato da molte affinità elettive e dalla comune sensibilità verso il mondo degli umili e degli emarginati. Lo spettacolo – che ha debuttato nel luglio del 2014 al Festival Astiteatro con musiche dal vivo eseguite dalla Filarmonica Toscanini – si avvale ora solo del magico piano del maestro Alessandro Nidi acquisendo una dimensione più intima che meglio si addice alle poesie in musica del grande cantautore milanese.

Enzo Jannacci (Milano 1935-2013) è stato nel secolo scorso uno dei maggiori esponenti del cabaret italiano che ha vissuto un momento eccezionale per qualità artistiche e intelligenza dei testi nel ‘mitico’ teatro Derby: erano gli anni in cui Milano ha offerto al mondo, oltre a Jannacci, geni come Giorgio Gaber e Dario Fo con i quali del resto l’autore di Vengo anch’io no tu no ha avuto lunghi periodi di collaborazione (con Gaber in particolare oltre a realizzare due album costituì il gruppo I due corsari e un’amicizia fraterna fino al 2003 quando Giorgio ci ha abbandonati).

Ed è proprio con Vengo anch’io no tu no che Moni Ovadia e Alessandro Nidi aprono il loro omaggio al più grande poeta (insieme a Fabrizio De André, di pochi anni più giovane di lui) della canzone italiana. 
Ovadia, come ha avuto occasione di dichiarare, per uno strano gioco del caso non ha mai conosciuto di persona Jannacci, anche se – entrambi milanesi e con molti amici in comune – avevano lo stesso mondo di riferimento etico e poetico, ma “un artista non serve conoscerlo di persona: se è sincero in quello che scrive bastano le sue opere”. E per l’autore di El purtava i scarp del tennis la sincerità è stato il filo conduttore della sua avventura artistica.

Lo spettacolo è incentrato soprattutto sui primi dischi di Jannacci (il primo, dicembre 1964, La Milano di Enzo Jannacci conteneva già alcuni dei capolavori storici) scritti in dialetto milanese che ha rappresentato il file rouge tra le canzoni e gli interventi recitati di Ovadia. Giusto l’elogio dei dialetti tessuto dall’artista yiddish (bulgaro di nascita, ma a Milano dall’età di tre anni e intriso di cultura meneghina più di tanti altri): vere lingue territoriali espressione dell’identità e della cultura popolare (splendida e significativa la poesia in siciliano Lingua e dialetto di Ignazio Buttitta) e caratterizzate da una ricchezza di vocaboli (Ovadia ha recitato da par suo anche il sonetto di Carlo Porta Ricchezza del vocabolari milanes in cui la stessa parte del corpo umano è indicata con trentasei termini diversi) che nell’attuale civiltà del computer, degli sms telefonici, degli hashtag… va progressivamente perdendosi.

Il dialetto milanese con la sua potenza, varietà e ironia sembra fatto apposta per accompagnare il benevolo e affettuoso sguardo ironico con cui il cantautore osservava quel mondo di barboni, ‘balordi’, emarginati, prostitute, sognatori, ladri… che lo affascinava con la sua disperata umanità, quel mondo presente anche nella poetica di Moni Ovadia e che ha ispirato quella poesia per immagini che è Accattone di Pasolini.

Sul palcoscenico dell’Elfo, in un’atmosfera resa ancora più magica dalle note del pianoforte di Alessandro Nidi, sono sfilati tra gli altri ‘esseri umani’ il commovente barbone di El purtava i scarp del tennis, l’uomo che non identifica il cadavere della sua donna prostituta per difenderne la dignità di M’hann ciamaa, gli eroi delle famosissime Andava a Rogoredo, Faceva il palo, L’Armando, Veronica… cioè quel mondo degli esclusi che bussa disperatamente alla porta della società ‘civile’, ma trova sempre qualcuno che gli dice no tu no.
Commovente Sei minuti all’alba dedicata al padre partigiano e a tutti coloro che furono protagonisti di quella pagina di libertà e attuale più che mai Vincenzina e la fabbrica il cui testo Ovadia vorrebbe far scrivere cento volte tutti i giorni a un noto manager italiano (ma sono in tanti, anche politici, che dovrebbero farlo insieme alla visione del film francese Due giorni, una notte dei fratelli Dardenne) in quanto sintetizza l’importanza della dignità del lavoro e quello che la ‘fabbrica’ rappresenta per gli operai meglio di ponderosi trattati di sociologia ed economia.

La standing ovation finale ha sciolto l’emozione del folto pubblico.

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