Il Quirino diventa palco per la nuova messinscena de “Il Berretto a sonagli”: uno dei testi più rappresentati di un primo Pirandello più girgentiano. Lo stesso autore lo traduce dal vernacolo (riservato a pochi) all’italiano più fruibile e unificante del giovane Regno. E ciò avviene in quel momento storico in cui la mitteleuropa è vivaio fertile di intellettuali che influenzano il pensiero del vecchio continente. Pirandello non è scevro, anzi è verso quel lontano nord che rivolge lo sguardo. Il processo di voltura traduce ma non muta la fibra.
Nonostante “A Birritta cu’ i ciacineddi” diventi “Il Berretto a sonagli” l’argomento trattato del tradimento rimane radicato e provinciale. I fatti vengono dalla terra come le radici appunto che vi insistono tenaci contro chi tenta di strapparle con ogni stratagemma compresa la traduzione letterale. Provinciale inteso come dimensione geografica e sociale e non certo come importanza del tema trattato che l’autore sviluppa nel suo magistrale stile capace d’affondare nelle viscere subconscie dell’io. Lo spettacolo ha debuttato con Gabriele Lavia l’8 novembre e rimarrà in scena sino al 20 dello stesso mese.

Contenuti
Il Berretto a sonagli: cronaca vigile del cornuto
Ciampa è un uomo vecchio di quarantacinque anni: così recita la didascalia dell’opera quando annuncia il personaggio al lettore. Così dice Pirandello e non per stramberia ma perché all’epoca della scrittura (nel 1916) presto si era vecchi. Ciampa è un uomo con un lavoro e una posizione rispettabile di scrivano e trova (forse solo per questo) una donna più giovane di lui, molto più giovane, bellissima, che sposerà. Ma Ciampa sa il rischio che corre e s’affanna a chiuderla in casa a chiave e custodire la chiave nel taschino del panciotto come una solida polizza d’assicurazione. Ciampa viene chiamato dalla signora Fiorìca, che nella stonatura della sua flebile corda civile, gli dice che sua moglie lo tradisce con suo marito (il Cavaliere e riverito principale dello scrivano innanzi). Non lo dice: lo lasciano intendere certe note stridule nella voce appunto e nelle parole che le si annodano come corde in gola. Ciampa è di udito fino e avverte un ronzio di cento calabroni nella verità della donna. C’è il retrogusto di Sorbe mangiate di mattina, che appanna e tradisce il pensiero di lei. Quando la questione sarà sulla bocca di tutti nel paese e piccola provincia: lo scrivano di casa Fiorìca si troverà costretto adesso a ristabilire l’onore oramai macchiato e perso in modo del tutto irrimediabile o quasi… Il dolore lo aveva già spento lei con quel bacio sulle labbra del vecchio. Ma l’Onore grida e reclama vendetta o soluzione. Emerge una Sicilia dove Tradimento e Rispetto sono due facce stampate sulla medesima moneta. La tragedia è quella del “Becco” che trova nella pazzia (non sua ma dell’altra cornuta, di Beatrice) la soluzione dell’incidente per preservare certi valori obbligati dal gioco dei Pupi. La verità in quanto tale non è credibile anche se gridata in faccia alla gente, allora meglio escogitare una bugia verosimile e architettare il tranello per la folla di maschere. Beatrice è pazza e si è inventata tutto!
Il Berretto a sonagli di Lavia esperimento ibrido di Teatro Espressionista
Gabriele Lavia è attore preparato e regista colto. Viene dalla scuola di Strehler e a quella Prima al Quirino, c’era tutto l’estro del Giorgio del Teatro che uno dei suoi allievi migliori ha disposto sul palco. C’è il grande velatino che nasconde i corpi ma rivela le loro ombre amplificandone a volte la grandezza o la misura simbolica. C’è lo spazio scenico invaso od occupato da altri elementi e simboli come quella batteria di uomini e donne in ascolto immobile: sono la società. Sono la borghesia di provincia venuta a giudicare. Concetto che Pirandello pescherà di nuovo in altre riuscite commedie come “Così è se vi pare”. Ma non c’è solo Strehler, c’è anche il Teatro Espressionista. C’è quella corrente del primo ventennio del ‘900, nata in Germania, durata poco ma che seppe lasciare un’orma tangibile e che si contrapponeva al naturalismo e impressionismo. Era per intenderci quella del Kabaret con la “K”. Si trattò di un’avanguardia che concettualmente reagiva al razionalismo. Nel Teatro l’Espressionismo (si dica che anche e soprattutto la pittura ebbe i suoi rappresentanti) estraniava lo spettatore con scenografie disturbanti dai profili sghembi e una recitazione e mimica esasperata. Laviaregista ci riesce in parte. Riprende quel salotto della magnifica versione di Randone, Spaccesi e Fenoglio e lo gambizza. Lo distorce. E non solo lo rovescia persino. Capovolge dunque gli schemi del salotto borghese. Crea piani irregolari, scoscesi e tendenti al basso. Il grande velo copre in un abbraccio virtuale tutta la scena sino a strabordare oltre il proscenio e sino alla platea in una contaminazione che non dà vie di fuga né ai personaggi, né al pubblico. Come una lunga, interminabile caduta: quella della borghesia o della società delle maschere che il drammaturgo ci racconta con insistenza. Laviaregista, ci riesce meno con la recitazione degli attori perché alcuni sembrano attecchire dentro quell’avanguardia germanica altri sono naturali, altri indefinibili nello stile e sembrano più spingere su un altro pedale seppure impressionista, meno esasperato. Forse più italico. Non parlo di bravura. Ronconi diceva sempre (e lo ricorda Gifuni): «Sei giusto e bravo ma parli un’altra lingua rispetto agli altri…».
Ecco lo stridore di questo Berretto. Beatrice e Fifì fluttuano sul palco a suon di Tango (tanto caro agli espressionisti) e il grammofono ci regala un magnifico salto temporale con quella sua voce gracchiante di tempo. Spanò è macchiettistico oltremodo rispetto agli altri attori. Ciampa sembra imperturbabile, eccetto quella sua camminata goffa e vecchia che a tratti perde, eppure tutto gli accade sopra il suo mondo pronto a schiacciarlo. Avrei voluto assistere a qualche moto di rabbia in Ciampa (e Laviaattore ne è capacissimo). Non mostra segni di quella esasperazione che ci deve essere quando si sceglie questo stile e il personaggio subisce così tanto da dover perdere quel carattere serafico. La saracena è una cavallerizza mascolina dai lunghi stivali di pelle tedesca e mi pare corretta nel suo dovere di esagerazione. Fana è naturalissima: si intuisce che non ha carriera, è probabilmente una filodrammatica, ma qui le va bene perché ha le physique du role. È vera, verissima ma non mi pare esasperata come un clown. Stride rispetto a tutta la compagnia che tende a quello sforzo naturalistico e a quella clownerie per l’appunto.

Cultura ed eleganza dentro un solo berretto
Lavia ci ha regalato (Espressionismo riuscito o meno) un esperimento lodevole di regia elegante. Ricercata. C’è un’eco forte di certi maestri come Toller e Kaiser, che anelavano con quella corrente modernista, la ricerca della libertà d’espressione e dell’uomo. Un uomo rinnovato e purificato da certe radici affondate nella terra come già si è detto. Lavia ha pensato che quel linguaggio germanico liberatorio si confacesse al “Berretto” e potesse meglio plasmare quel personaggio di Ciampa incatenato dentro il piccolo cortile della sua esistenza paesana. Lavia ha pensato anche che quella Germania tanto cara al drammaturgo (che a Bonn si laurea in glottologia) potesse esaltare certi concetti da disincagliare da quella remota provincia dove la storia è conficcata. Quella provincia dalla quale vuole staccarsi lo stesso Pirandello, che come già detto, traduce l’opera per dargli un nuovo respiro, volo, e dimostrando infine che certi argomenti riguardavano anche le grandi città del nord. Del continente, al quale Ciampa (qui alter ego del drammaturgo) mira con quello sguardo agognato: capace di friggergli le vene e che gli dia quell’aria respirabile che la stolida e remota regione toglie sino all’asfissia.
Ombre meravigliose sul Berretto a sonagli di Lavia
Ciampa si fa o si finge grande Uomo quando entra in scena per conferire a corte (borghese) con la signora Fiorìca. La grandezza è segnata sul velatino da un’ombra di gigante che poi si riduce sempre di più sino a rivelarci la vera misura di un personaggio uomo tra gli uomini. Apre e dispone il suo udito a quella udienza inaspettata e inusuale. Ci sono altre ombre stagliate sul fondo. Sono ombre solide. Sagome. È la gente del posto. La società che scruta. Bisbiglia. Giudica senza essere giudice. Da quella batteria di corpi fermi si stacca Fifì per entrare nella storia e l’idea registica mi pare assai originale tanto da costringermi per tutto il tempo a capire se tra quei pupi a grandezza naturale ci fosse (occultato) un altro fantoccio pronto a farsi personaggio.
Il Berretto a sonagli: un coro di voci diverse
Non ho capito perché oltre a non aderire tutta la compagnia a quell’idea registica di Espressionismo voluta da Lavia, ognuno interpreti il proprio personaggio con accenti diversi? Beatrice (Federica Di Martino) e Fifì (Francesco Bonomo) recitano in italiano e con ottima dizione. Ma se li analizzo come personaggi mi chiedo perché non parlino in siciliano? Forse perché appartenenti all’alta borghesia che rinnegava il dialetto per ragioni elitarie? Ma perché non lasciargli almeno l’accento siciliano (anche leggero) dato che seppure tradotta la pièce rimane collocata in Sicilia? Mi viene in mente allora quel meraviglioso principe Fabrizio Salina del Gattopardo (Burt Lancaster è doppiato magistralmente dal palermitano Corrado Gaipa) quando conferisce con l’emissario piemontese e seppure blasonato e dell’elite dunque tiene uno spiccato accento isolano. Il delegato Spanò (Mario Pietramala) ha uno spiccato accento calabrese ed è incredibile che se la prenda con quel mulo di Logatto, “calabrese” (quindi alludendo a un forestiero) suo collega, che arresta il Cavaliere a seguito della denuncia di concubinato (all’epoca della scrittura era già reato per il codice Zanardelli e come poi verrà sancito nel 1930 dal codice Rocco che mitigherà il reato per il marito). Inoltre si sa: il delegato è del posto quindi stona l’intercalare Citra Pharum… La saracena (Matilde Piana) parla di nuovo in perfetto italiano (ha una voce educata d’attrice) eppure Pirandello la pensa come una donnona del popolo (scrisse il personaggio per Rosina Alselmi), non è borghese: quindi non vale quanto supposto sopra per Beatrice e Fifì… Fana (Maribella Piana) è donna vera a verace del sud. Donna Assunta Labella (Giovanna Guida) parla in perfetto italiano (peraltro troppo giovane per essere la madre di Beatrice. Una parrucca bianca non è spesso sufficiente ad attempare un personaggio se non si provvede a scurire la voce o usare altri trucchi). Ciampa parla siciliano. Peraltro quel siciliano stentato di Lavia, nato a Milano e cresciuto a Torino. Siciliano che l’attore canuto e di mestiere mitiga con i “facilitatori” che traducono certe parole anche quando si comprendono benissimo. Quindi ecco perché quel titolo dell’articolo che mi fa sembrare questa pièce, dal punto di vista degli accenti regionali, una mescola. Non si capisce il luogo della messinscena che il regista ci ricorda cadenzando le Banniate, ovvero le voci pungenti dei mercanti che forano l’uscio di casa Fiorìca.
Il Berretto a sonagli e quella misteriosa Soglia
Lavia nelle sue note di regia allude alla vita che è Soglia troppo affollata del nulla. Nulla inteso come apparenze o maschere. Concetto pirandelliano filosofico che il regista qui inserisce arbitrariamente anche nel monologo delle “Tre corde”. Non sempre un concetto seppure del drammaturgo sta bene in bocca al suo personaggio. Il personaggio diviene il mezzo attraverso il quale esprimere la poetica dell’autore ma con altre parole. Gesti. Ciampa è alter ego (a tratti) di Pirandello: aspirante giornalista, scrittore, ma non è “professore”. Certo parla di Pilato e non c’è dubbio che legga negli scampoli di tempo, ma quel concetto della “Soglia” è così elevato, perfetto, autorale, che stride in bocca a un uomo tuttavia semplice come lo scrivano di paese. È troppo erudito per quanto poi Ciampa ci stupisca di nuovo con quella sua perspicacia (elementare) quando dice che per essere creduti pazzi basta gridare la verità in faccia alla gente. A tutti. C’è l’intelligenza (simile a un talento innato) di chi vuole staccarsi da quella dimensione ma lo fa “piano” anelando libertà, s’imparadisa sognando il continente, legge, scrive. Ma piano. Con umiltà e i manicotti per camicia neri come redini per le ali, che gli impongono di lavorare al banco del Cavaliere e sfogare la passione per la scrittura di notte.
Umorismo e Comicità nel Berretto a sonagli
Tema ormai atavico e nel quale ogni volta ci si imbatte e dibatte è la dicotomia umorismo-comicità. La commedia nasce in una versione più lunga che sembra Pirandello abbia perduta. La scrive per Angelo Musco che non rinuncia a quella vena comica da primo attore. I registi erano i capocomici. La questione del far ridere a tutti i costi a discapito delle incongruenze e dramma nelle quali affondava Ciampa, furono motivo di furibonde liti tra l’attore in vernacolo e il professore (come amava chiamarlo Musco). Quando Pirandello tradusse, come ormai noto anche in questo articolo, la Burritta a Berretto, la vena comica si perse del tutto dando spazio alla tragedia di chi è tradito negli affetti, deriso dal paese. Nella storia del Berretto ci sono stati degli eccellenti dissacratori come Lo Monaco che riduce Ciampa a macchietta per quel dovere comico di cui certi attori si credono essere investiti. Lui stesso dirà che fece un piccolo Ciampa, anzi un ciampino. (non me ne voglia Pirandello se faccio da grancassa a una simile idiozia). Una violenza inaudita: si replicava l’intento di Musco e si ignorava il pensiero del drammaturgo che certamente viene così annebbiato e diluito da certe meccaniche commerciali riempisala. Lavia è più elegante, contenuto, ma non rinuncia a tratti a dargli anche lui una vena comica al suo Ciampa quando è carponi, quando usa quel suo buffo siciliano, quando fa con corpo e mani certe tarantelle che stonano addosso al personaggio. C’è forse nell’idea del regista la convinzione che il pubblico, considerato il momento storico, abbia davvero bisogno di ridere e difatti ride e si diverte. Ma è un’altra cosa. Non è il Berretto.

Il Berretto a sonagli di Lavia: grande Teatro
Nonostante qualche sbavatura perdonabile: accenti differenti, recitazioni non tutte in linea sull’idea di un Teatro d’avanguardia espressionista, il siciliano incredibile di Lavia, quella irrinunciabile tendenza comica: questo Berretto (che non è da annoverarsi tra i migliori se lo pensiamo rispetto a quello di Randone o Turi Ferro) si rivela un innovativo e lodevole esperimento. È grande Teatro dispensatore di cultura. È una rappresentazione che fa parlare. Incuriosisce. Gli spettatori indugiano nel foyer. Si discute. Pensano e non è poco specie di questi tempi di manipolazione della verità che Orwell preconizzò cinquanta anni fa circa. Ed è questo il vero successo e dovere del Teatro: fare Cultura. Quindi Lavia si conferma il grande pensatore. Attore e regista colto che ha il coraggio di provare e mette in conto di commettere qualche errore. Chi scrive sceglie e fa errori. Cechov diceva «Non cambio le mie commedie. Ognuno è responsabile dei propri errori».
Spettacolo da vedere assolutamente.
il berretto a sonagli – info e contatti
8.20 novembre
Effimera Diana Oris
presentano
GABRIELE LAVIA
FEDERICA DI MARTINO
IL BERRETTO A SONAGLI
di Luigi Pirandello
con
FRANCESCO BONOMO MATILDE PIANA MARIBELLA PIANA MARIO PIETRAMALA
GIOVANNA GUIDA BEATRICE CECCHERINI
scene Alessandro Camera
musiche Antonio Di Pofi
costumi ideati dagli allievi del Terzo anno dell’Accademia Costume & Moda
Matilde Annis, Carlotta Bufalini, Flavia Garbini, Ludovica Ottaviani, Valentina Poli,
Nora Sala, Stefano Ritrovato, coordinatore Andrea Viotti
regia di GABRIELE LAVIA