Carlo Cerciello, regista simbolo del teatro resistente napoletano, esce dal suo Elicantropo in tempo di Covid19 per portare in scena nella stagione del Teatro di Napoli un acuto testo di Michel Marc Bouchard sul ruolo della parola per trasformarlo in una potente allegoria dell’incomunicabilità intergenerazionale.
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I manoscritti del diluvio, ritorno al Mercadante in versione post-apocalittica
Che bello. Tornare al Mercadante dopo tanti mesi di assenza, mi fa sentire davvero emozionata, è come tornare a casa. Non importa se alcuni dettagli sono cambiati per la nuova direzione artistica, non importa se ora tutti dobbiamo farci misurare la febbre, registrare con chi siamo venuti, restare con la mascherina e rispettare il distanziamento. Il Teatro Mercadante di Napoli è sempre un po’ casa, per qualsiasi napoletano nato spettatore.
Anche per questo motivo, quando il serrato passaggio di testimone delle maschere – che in questa nuova epoca hanno assunto ruolo, responsabilità e rischi del tutto nuovi – ti conduce al tuo palco e finalmente ti affacci sulla platea, quello che vedi è piuttosto scioccante: sembra che nel teatro sia esplosa una bomba, lasciando emergere poche sedute superstiti impolverate da una massa di detriti e fogli sparsi.
I minuti di attesa lasciano il tempo per apprezzare il lavoro fatto da Roberto Crea (una vera certezza napoletana) su questa scenografia apocalittica, davanti alla quale posso solo togliermi il cappello e tollerare di dover stare in un palco (posizione che di solito non mi è congeniale), comunque con un’ottima visuale su qualsiasi cosa accadrà in questa ambientazione così suggestiva.
I manoscritti del diluvio: l’importanza della scrittura e la metafora generazionale
Dopo poco la scena si popola e l’antefatto viene piano piano alla luce, se pure in maniera un po’ difficile inizialmente – ecco perché distribuiscono le note di regia prima dello spettacolo – e comprendiamo di essere in ciò che resta della sala di scrittura creata all’interno della palestra di una scuola di un piccolo paese imprecisato, in cui non sono rimasti che anziani e che è stato distrutto da un’inondazione, insomma un piccolo diluvio. Stavolta, anche senza note di regia, è facile intuire che il diluvio è la metafora dello stravolgimento, di un qualsiasi stravolgimento, ma in particolare dello stravolgimento che viene dai cambiamenti così rapidi avvenuti negli ultimi anni, e forse anche di quello che stiamo vivendo nello stesso ultimo incredibile anno.
I fogli sparsi sono i testi scritti da tutti gli anziani del paese, che sono andati dispersi: in questi testi gli anziani hanno scritto per anni le loro memorie, i loro punti di vista, le loro storie. Oppure, si potrebbe dire, hanno scritto la storia, così come l’hanno vissuta, fermando attimi che nella velocità a cui oggi siamo abituati sembrano non essere mai esistiti e perdono il loro valore. Anche stavolta, non servono le note di regia per vedere davanti a noi la metafora del passato, di una generazione intera, isolata dalla successiva, abbandonata dalla successiva, forse dimenticata dalla successiva, che lotta per rivendicare la sua esistenza, per lasciare un segno, che resiste per comunicare, per cercare di insegnare ancora qualcosa, per lasciare un’eredità a questa gioventù di cui ha perso le tracce senza sapere come, senza sapere perché.
I manoscritti del diluvio: la vecchiaia e la gioventù
Si, la metafora è chiara, è commovente, ma non c’è solo quella. In questo spettacolo c’è la vecchiaia caparbia, quella che non ti fa mollare, a costo di andare contro gli amici e di rimanere solo, c’è la vecchiaia liberatoria, quella che ti fa trovare il coraggio di essere finalmente come vuoi, come hai sempre creduto di non poter essere, c’è la vecchiaia cieca, che non vuole ammettere di essere vecchiaia, che rivendica ancora il suo diritto al rimorso e alla gioventù perduta, che vorrebbe poter cambiare le cose fatte, e c’è la vecchiaia che deve fare i conti con gli acciacchi, con i dolori, le medicine, o con la mente che non ti aiuta e che devi riuscire a domare, non perché non funzioni più, ma perché ormai funziona a modo suo.
E da qualche parte, un po’ nascosta, un po’ accennata, un po’ ammirata, a tratti pietosa, a tratti giudicante, a volte anche rappresentata in modo solenne, c’è la gioventù, il presente, che si prepara ad essere futuro e non ha affatto chiaro quale rapporto debba avere con il passato, in buona parte preferirebbe ignorarlo.
Verso un mondo nuovo, non necessariamente migliore
È uno spettacolo ricco, di cui raccontare la storia sarebbe riduttivo, vi basti sapere che in scena abbiamo cinque anziani superstiti, alle prese con la ricostruzione di quanto hanno scritto negli anni, come se fosse, almeno secondo il tormentato Samuel (Danilo Nigrelli), l’unica cosa importante rimasta da poter fare, da poter lasciare. Non tutti sono d’accordo ovviamente, alcuni subiscono il fascino dello stravolgimento, della possibilità di farsi trasportare dai cambiamenti e andare oltre il passato anch’essi, insieme ai giovani. La tensione che si genera, le riflessioni che ognuno dovrà fare, gli scontri che dovranno affrontare, le loro scelte, sono i veri protagonisti, che conducono verso un mondo nuovo, non necessariamente migliore.
È uno spettacolo, tra testo, regia e interpretazione, che tocca con grande grazia un tema forte e delicato, argomenti che ci piace non affrontare e che non sappiamo mai come prendere, e che in questo preciso momento storico di pandemia, di distanziamento sociale e vittime economiche, di menefreghisti e categorie fragili, di giovani in isolamento forzato e anziani spaventati, tocca proprio l’anima.
I manoscritti del diluvio visto da una quarantenne: tenerezza e senso di colpa
Io poi in quel palco ad assistere, stavolta, per caso, sono sola con mia madre settantaduenne, e posso spiare qualche scena attraverso i suoi assorti occhi azzurri, mentre il suo capo di tanto in tanto annuisce spontaneamente, e il suo petto si riempie di qualche profondo sospiro. Questa sorta di doppio punto di vista da cui sono spettatore, mi ha riempito di una particolare dose di tenerezza e di un certo senso di colpa, generazionalmente parlando. Un senso di colpa che non sento tanto per una forma di rifiuto di imparare dal passato che i nostri anziani hanno vissuto, ma per quella sorta di naturale negazione che ci caratterizza forse più di giovani di altre epoche: la negazione del fatto che il passato presto saremo noi, e che probabilmente non saremo neanche in grado di ricordare tutti i momenti di cambiamento che abbiamo attraversato, tanto sono avvenuti velocemente, che probabilmente non saremo neanche in grado di raccontare i dettagli di quello che è successo, perché non li abbiamo capiti o perché la maggior parte di noi non si è mai fermata ad osservarli e chi ci ha provato non ne ha colti abbastanza.
I manoscritti del diluvio: ti ricorderai per sempre che cosa volesse dire.
Non serve che mi dilunghi oltre per consigliare di andare a vederlo prima della fine del mese – restrizioni anticovid permettendo – non è uno spettacolo in cui ti viene da fare molti commenti alla musica, alle luci, alla regia… che tanto è tutto impeccabile e nemmeno serve distinguerle nell’armonia generale. Lo dovreste vedere essenzialmente perché è uno spettacolo che ti trapassa gli occhi, di quelli che alla fine non ti ricordi bene le parole o che è successo, ma ti ricorderai per sempre che cosa ti è sembrato volesse dire.
I MANOSCRITTI DEL DILUVIO
di Michel Marc Bouchard*
traduzione Barbara Nativi
regia Carlo Cerciello
con Walter Cerrotta, Michele Nani, Danilo Nigrelli, Franca Penone, Bruna Rossi, Maria Angeles Torres
scene Roberto Crea
costumi Daniela Ciancio
luci Cesare Accetta
musiche Paolo Coletta
suono G.U.P. Alcaro
aiuto regia Aniello Mallardo
assistente alla regia Cecilia Lupoli
assistente alle scene Michele Gigi
assistente ai costumi Arianna Pioppi
direttore di scena Teresa Cibelli
datore luci Pasquale Piccolo
macchinista Nicola Grimaudo
fonici Paolo Vitale, Daniele Piscitelli
sarta Roberta Mattera
trucco Vincenzo Cucchiara
foto di scena Marco Ghidelli
realizzazione scena F.lli Giustiniani
realizzazione costumi Farani
materiale elettrico Emmedue
materiale audio Opera 26
parrucche Rp Studio,
si ringrazia Aldo Signoretti
trasporti Autotrasporti Criscuolo
produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale
Durata: 1 ora e 30 minuti (atto unico)
Teatro Mercadante
17>31 ottobre 2020
*Michel Marc Bouchard è rappresentato in Italia da Agence Althéa / éditions Théâtrales, Parigi