Potente e profondo il racconto di I Dareen T, andato in scena il 4 aprile all’interno della rassegna di teatro contemporaneo Materia Prima presso il Teatro Cantiere Florida, per la regia di Nitzan Cohen, ha il respiro di un progetto internazionale come del resto il Midlle East Festival, col quale Murmuris collabora.
Scritto a 4 mani da due donne, Einat Weizman, che lo interpreta in scena con grande misura espressiva e Dareen Tatour, protagonista delle vicende narrate, il testo racconta la storia di un’amicizia e di una collaborazione difficile e pioniera di nuovi linguaggi tra un’israeliana attivista politica, contestata dalle autorità per le sue opere teatrali provocatorie, e una poetessa palestinese, arrestata per l’accusa infondata di aver postato su Facebook video e poesie inneggianti al terrorismo. Einat incontra Dareen nel corso della sua lunga battaglia legale per difendere i propri diritti ed ecco che nasce un progetto innovativo: raccontare la dimensione quotidiana del conflitto arabo israeliano, ma, per la prima volta, dal punto di vista di un donna, spesso voce inascoltata e vittima di una doppia negazione, come figlia di un popolo oppresso e come donna in balia della violenza e della discriminazione della società patriarcale a cui appartiene.
La scena è scarna: una scrivania, un pc acceso, l’attrice seduta in scena a sipario aperto in abiti quotidiani, jeans e e maglietta. Alle spalle uno sfondo sui cui vengono, di volta in volta, proiettate le fonti di una ricerca che sembra avere il sapore del documentario di inchiesta piuttosto che della narrazione teatrale. La luce di un bianco caldo bagna nella sua interezza il palco, svelando senza nessun artificio l’assenza di finzione. L’effetto estraniante è amplificato dalla prima battuta dell’attrice che destabilizza le aspettative del pubblico parlando in ebraico. In alto sottotitoli in italiano ci permettono di seguire il flusso del racconto e, al tempo stesso, ci costringono ad una fatica che non prevedevamo di dover compiere, rendendoci tesi, attenti, in qualche modo già coinvolti. La narrazione di Einat inizia rapida, gentile, lucida, misurata nei gesti e nelle parole. Non c’è sensazionalismo né particolare trasporto, non un filo di retorica, né autocompiacimento: solo narrazione nuda che costringe a vedere il mondo dagli occhi di chi è inerme davanti alla violenza e all’ingiustizia, ma anche capace di salvarsi conservando umanità nel proprio sguardo sul prossimo. E’ una sorta di frutto amaro col guscio questa storia che, a poco a poco, si fa narrazione chirurgica e accorata dell’inferno carcerario a cui Dareen viene sottoposta. La sua odissea si consuma in balia di autorità ostili, trovandosi ad essere, suo malgrado, presunta colpevole senza possibilità di difendersi, umiliata nella propria intimità identitaria per la propria fede, simboleggiata dallo hijab e dalla lotta per poterlo portare in carcere, per il genere e il popolo di appartenenza.
Einat passa con pacata disinvoltura dal racconto della propria inchiesta condotta al fianco di Dareen, all’interpretarne in prima persona le memoria; le dà corpo e voce indossandone con delicatezza commovente, quasi pudore, le emozioni laceranti. Le sue parole dialogano con ritmo crescente assieme alle immagini sullo sfondo, grazie alle quali ci intrufoliamo nelle mail di Dareen, nelle parole scritte per urgenza di libertà sul muro della cella, nei suoi disegni, nelle immagini controverse dei social, che sembrano raccontare il vero e il falso, confusi insieme in ogni interpretazione possibile. La musica accompagna in sordina, con ritmo cardiaco di discrete percussioni, senza mai prevalere sul testo scandito, a tratti, quasi cantato. E così precipitiamo nel vissuto della poetessa violata, ipnotizzati da un gioco che si svela a poco a poco: stiamo assistendo ad una sorta di rito di guarigione inedito, affidato alla narrazione autobiografica. Einat e Dareen, figlie di popoli nemici, diventano simbolo dell’eterna lotta tra vittime e carnefici, legati a doppio filo alla propria ferita aperta e condannati ossessivamente a riaprirla. Fino a quando? Forse finché non sceglieranno di farsi corresponsabili del conflitto quanto del suo superamento, pronti a fare propria l’uno la storia dell’altro, a identificarsi col nemico per dissolverne l’alterità e, con essa, lo sterile conto delle colpe.
Ecco che il tema del genere assume un orizzonte più vasto di quello, già così urgente, della rivendicazione di rispetto, parità di diritti e dignità; diventa il richiamo ad un risveglio del femminile come agente di pace e ripudio della violenza in nome della cura dell’umano. Le donne diventano le portavoce di un modello di giustizia riparativa non solo perché vittime di millenarie discriminazioni, ma perché capaci, come madri del mondo, di vedere se stesse nell’altro, di tenere in grembo il nemico, di amare e integrare l’alterità da sé. La vittoria di Dareen è tutta nel suo sorriso finale senza odio: ciò che ha imparato in maniera indelebile dalla sua sfortunata esperienza, ci racconta, è che mai nessuno, potrà privarla della libertà di dire la propria opinione.
Per me l’arte è diventata l’unica arma pacifica disponibile per esprimere e trasmettere al mondo le mie sofferenze. La resistenza attraverso l’arte, o come mi piace chiamarla la “resistenza bianca”, è quando l’arte si manifesta essa stessa come forma di lotta. Dareen Tatour
I, DAREEN T.
uno spettacolo di Einat Weizman
regia di Nitzan Cohen
scritto da Dareen Tatour e Einat Weizman
video Nimrod Zin
musica Tamer Nafar e Itamar Zigler
scenografie Tal Arbiv
light design Nadav Barnea
Lo spettacolo I, Dareen T. è uno degli eventi speciali di MIDDLE EAST NOW 2019 festival di cinema e cultura contemporanea sul Medio Oriente
Teatro Cantiere Florida
4 aprile 2019