I giganti della montagna@Piccolo Teatro Studio Melato Milano

Una trama indefinita, sfumata e quasi inesistente che radica in una conturbante vicenda tra realtà e fiaba onirica dalle molteplici interpretazioni possibili: una compagnia teatrale esausta e ridotta alla fame perché la prima attrice si ostina a recitare “La favola del figlio cambiato” – scritta per lei da un poeta suicida per amore non corrisposto – giunge nella villa detta la Scalogna dove abitano strani personaggi e un insolito mago…

Non si tratta di un’interpretazione tradizionale de I giganti della montagna di Luigi Pirandello (Girgenti, ora Agrigento, 1867 – Roma 1936), l’ultima sua opera (composta dall’inizio degli anni ’30 anche se concepita forse prima) rimasta incompiuta alla sua scomparsa. Proprio questa incompletezza la rende enigmatica facendole acquisire un’aura particolare e un fascino misterioso che hanno stimolato la capacità creativa di Roberto Latini (Roma 1970), adattatore, attore e regista molto impegnato nello sviluppare una pratica drammaturgica personale basata sul principio che “La scrittura è corpo in movimento” e non è mai slegata dal corpo-voce dell’attore e dalla musica.

Un lavoro non da raccontare, ma sicuramente da vedere per l’incanto arcano che lo attraversa, per le atmosfere cangianti tra sogno e allucinazione, concretezza e illusione, vita e teatro… che coinvolgono, per quei messaggi appena suggeriti che lasciano nella mente appunti da rivedere e svolgere per ritrovarvi segni del grande Pirandello, conoscitore della psiche umana, che si lascia leggere, capire, comprendere e penetrare soprattutto nel composito e sfaccettato mondo delle Novelle, dove si amalgamano mirabilmente umanità profonda, capacità d’introspezione, retaggi di lontane tradizioni, solarità inquieta e soprattutto quella melanconica tristezza che l’assolata terra di Sicilia trasmette ai suoi abitanti oltre a mille altri aspetti della fantastica capacità dell’uomo di leggere l’esistente.

Pirandello s’ispira sovente alle proprie novelle per le opere teatrali: in questo caso a Lo stormo e l’Angelo Centuno e ad altre per alcuni personaggi e anche La favola del figlio cambiato – composizione fiabesca musicata da Gian Francesco Malipiero e rappresentata nel 1934 – è scritta da Pirandello che la riprende dalla sua novella Il figlio cambiato.

Nella rivisitazione di Latini emergono brandelli di parole della trama pirandelliana e fantasmi dei suoi personaggi, le atmosfere sono ombrose e tendenti al buio se non cupe, quadri surreali con alcuni richiami a Magritte, ma di fronte al campo di grano ricco di floride e solari messi come non pensare a Padron Dio, toccante novella il cui protagonista poverissimo, umile “esattore di Dio”, chiede la carità anche di alcuni chicchi di grano che semina in un campo abbandonato ab immemorabili ripulendolo da erbacce, dissodando quella terra incolta con mezzi di fortuna e godendo della crescita rigogliosa delle numerose spighe finché dopo un lungo ricovero in ospedale tornato al terreno vi troverà una sorpresa…
Straordinarie riflessioni di Pirandello sul miracolo della vita e sul flusso vitale continuo dell’esistere e sui suoi perché tante volte sviscerati come per esempio in Canta l’Epistola il cui protagonista difende l’esistenza del ‘suo’ filo d’erba.

E così si può continuare a riflettere senza posa grazie a Latini con il suo singolare e affascinante adattamento che si apre e si chiude a mo’ di cerchio con “Io ho paura”, ultima battuta vergata da Pirandello sul copione e pronunciata da uno dei personaggi angosciato di fronte ai rumori squassanti dei Giganti in arrivo: piace interpretare “Paura” come timore che si perda la bella abitudine di pensare con la propria testa, attività, invece, profondamente stimolata dall’intrigante messa in scena del bravissimo regista-attore.

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