GENERAZIONI SCORRETTE è uno spettacolo che si pone un grande obiettivo: parlare di quelli che sono estranei al mondo, perché giudicati o emarginati per ciò che sono o ciò che rappresentano in una società dove il fallimento è il peggiore peccato mortale. Si articola per quadri che dovrebbero avere il ritmo e l’andamento di un fiume di storie, dovrebbero restituirci realtà disconnesse; ma non riesce, vuoi perché a volte scade nei luoghi comuni, vuoi perché sembra non arrivare mai a fondo nel portato dei personaggi che soli o in coppia si presentano sul palco di fronte a noi spettatori.
Gli spunti ci sono, tanti e pregevoli, perché legati e vicini alla realtà che ci circonda. Chiunque potrebbe avere immaginato il paradiso sognato dal muratore all’inizio dello spettacolo, un paradiso dove i tuoi stessi eroi fanno il tifo per te e dove la mortadella non cade mai dal panino; solidarizzare col padre di famiglia coinvolto in una rapina, in balia di una pistola e di una stupida conta per sapere chi morirà fra gli ostaggi. La sua frustrazione, il suo trauma, il suo dolore nell’essere sopravvissuto sono umani e angoscianti per tutti. E ancora, chi non assumerebbe a simbolo l’ex impiegato che dopo una vita da bravo lavoratore – bravo marito – brav’uomo scopre che ha vissuto un inganno e si vendica? Per poi scegliere la pazzia come rifugio dallo strazio della sua vita e come affermazione di un nuovo sé in barba alla società e alle sue regole. Chi non si è mai sentito così, pronto a rompere ogni legame senza pietà e rimorso?
Quello che non convince è la messa in scena. Non convince innanzitutto la struttura di sketch/segmenti netta e rigida, che non permette allo spettatore di provare quel sano e meraviglioso crescendo di commozione con ciò che vede. Tutto poi è complicato dall’andare e venire degli attori: ogni storia un attore entra e poi esce e così anche il pubblico che ogni volta deve rientrare nel mondo proposto in scena. Anche la bravura di Francesco Di Cicco, il musicista che accompagna lo spettacolo suonando dal vivo brani anche molto famosi come l’Hallelujah di Leonard Cohen, non basta a creare un legame fra queste storie che più che un fiume sembrano monoliti non comunicanti fra loro.
Ogni momento dello spettacolo si pone come una dissertazione autonoma su un argomento, dalla morte sul lavoro alla precarietà, fino all’omosessualità, una tematica affrontata mettendo uno dietro l’altro una serie di luoghi comuni, primo fra tutti il fatto che un omosessuale debba rivendicare il suo non essere “un senza palle”. Manca totalmente il conflitto, il dolore e la fatica che molti omosessuali, uomini e donne, provano non nell’affermare se stessi ma nel rivendicare la libertà di essere ciò che si è. Non nell’uscire dall’etichetta ma nell’affermare che esistono pienamente come chiunque altro su questo pianeta, che non sono uno scherzo della natura. Soprattutto in una società come la nostra, spesso omofoba e ancora poco accogliente rispetto a temi così importanti come la diversità intesa in senso lato.
Questa modalità di racconto finisce col non creare un tessuto unico che avvolge lo spettatore per raccontargli qualcosa di più, per andare oltre il “già visto” e “già sentito”. Solo in un momento si arriva a questo, quando due personaggi profondamente diversi raccontano la stessa storia ma dai loro punti di vista. Ecco che allora una tragedia che poteva essere univoca acquisisce uno spessore più ampio e i fili sottesi fra queste due storie ci rendono più partecipi e ci svelano dettagli preziosi. Purtroppo però accade solo in questo momento e quindi inevitabile è chiedersi se creare un legame fra ogni storia, anche solo tramite un’immagine, una parola che faccia da trait d’union, non sarebbe stato il modo migliore per creare un vortice di senso e conquistare così uno spessore più forte.
Anche gli aspetti più tecnici rivelano questa tendenza al non amalgama generale. Le luci sono tendenzialmente fisse e centrate solo sull’attore che si presenta in scena, non creando alcuna atmosfera ma semplicemente facendo quello per cui esistono, illuminare.
In scena l’unica parte veramente vissuta è la postazione di Di Cicco, viva e significativa, nonostante alcuni problemi tecnici. Per il resto le sedie e soprattutto il tavolo sono elementi quasi di disturbo perché non sono mai veramente usati, stanno lì a servizio di brevi momenti, sono poco agiti e poco vissuti, quindi privi di un vero significato scenico.
Si esce dal teatro abbastanza perplessi, perché le premesse per un lavoro di qualità ci sono: le storie, gli argomenti, ma non sono sufficienti. Ci si augura che questo spettacolo possa crescere nel suo impianto scenico, perché l’obiettivo che si pone è interessante e molto attuale, ma ancora la sua presentazione risulta acerba e poco tagliente.
Info:
SPAZIO DIAMANTE
AssiomA Compagnia Artistica
presenta
GENERAZIONI SCORRETTE
STORIE DI ILLOGICA REALTA’
13 aprile e 14 aprile 2018 ore 21.00
Spazio Diamante
di e con Alessandro Martorelli, Antonio Pellegrini, Francesco Di Cicco
Con la partecipazione straordinaria di
ENRICO SORTINO