Gabbiano@Piccolo Teatro Studio Melato Milano

Uscito nel 1895 dalla tormentata, sofferta e geniale penna di Anton Pavlovic Cechov (Taganrog 1860 – Badenweiler 1904) – drammaturgo e medico nato da un’umile famiglia (i cui nonni erano servi della gleba, istituzione abrogata in Russia nel 1861!) in una città un tempo fiorente porto, costruito da Pietro il Grande e insabbiatosi a metà ‘800, e deceduto nella Foresta Nera dove invano cerca una salute logorata dalla tisi – Il gabbiano, dramma in quattro atti, dopo un primo insuccesso nel 1896 trionfa nel 1898 divenendo un’opera fondamentale che segna il passaggio dalla drammaturgia ottocentesca classica a quella più tormentata del ‘900 tanto da essere tra i più rappresentati.

Un testo di grande importanza e fascino che fin dalla prima lettura in giovanissima età ha colpito il cuore e la mente di Carmelo Rifici (Cernusco sul Naviglio/MI 1973) – regista nominato lo scorso maggio Direttore della prestigiosa Scuola per attori del Piccolo intitolata a Luca Ronconi con cui ha collaborato in numerose regie – che assunta da poco più di un anno la direzione artistica di LuganoInScena l’ha scelto (deprivandolo volutamente dell’articolo) come prima prova di questo suo nuovo percorso umano e professionale. La coproduzione tra LAC Lugano Arte e Cultura, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d'Europa e Teatro Sociale di Bellinzona rappresenta una collaborazione significativa fra il nuovo e affascinante teatro che vuole produrre cultura e non importarla e un’importante, autorevole e seria Istituzione di valenza internazionale come il Piccolo: uno straordinario ponte bidirezionale tra Italia e Svizzera.

Un classico molto utilizzato da Rifici per “allenare” i giovani allievi della Scuola in virtù dell’età giovanile di alcuni protagonisti come il giovane teatrante Kostja dubbioso sul fare teatro, della complessità dei caratteri da interpretare, dell’analisi dei rapporti interpersonali e dell’animo di ciascuno e dell’uso della lingua e da lui rivisitato mettendo in luce l’ossessione dei protagonisti a volere apparire diversi da quello che sono. Come può non essere depressa una persona che come ÄŒechov è picchiato ab infantia da un padre violento con tutta la famiglia, dolcissima moglie compresa, e che da quando ha 24 anni soffre di tisi combattendo contro il male fino all’ultimo?

Un capolavoro che rappresenta un’umanità che contemplando se stessa, ieri come oggi (atemporalità simboleggiata da costumi non ascrivibili a un periodo preciso), vorrebbe divenire diversa, ma non riesce fallendo i propri scopi, così come negli amori che infiammano i vari personaggi, tanto che nessuno riesce a realizzare o a ottenere ciò cui aspira, tuttavia continua a recitare specchiandosi nel lago (baratro, specchio e occhio rappresentato dal pavimento) antistante alla dimora di Piotr Nikolaevic Sorin (l’anziano e malato ex funzionario intorno al quale ruotano ospiti e abitanti della tenuta), ambiente in cui si trovano tutti – sempre su un palcoscenico come gli attori anche quando non recitano – a discutere continuamente sognando di cambiare perché immelanconiti da un presente che non soddisfa e da un futuro incerto.

Sogni fugaci e inconsistenti come i gabbiani che una scarna ed essenziale scenografia ha reso di carta grazie a Margherita Palli (che opera per la prima volta in patria essendo d’origine ticinese) e fragili incapacità sono ben resi da un gruppo di attori coeso, abile ciascuno nel rendere manifesto il proprio fallimento spostandosi su passerelle, raffigurazioni dei moli del lago: precarietà di un esistere insicuro e incerto che tormenta e intristisce gli animi.

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