Giovedì 3 novembre, al Teatro Comunale di Antella è andata in scena la prima fiorentina di LUCIFERO, di Chiara Guarducci con Fabio Rubino e con la partecipazione della Compagnia Lu Campanile, con Dhemetra Di Bartolomeo, Fulvio Ferrati e la regia di Paolo Biribò. LUCIFERO racconta e celebra la caduta, come esperienza costituiva dell’uomo, angelo di carne e senza ali, condannato a prendere coscienza di sé attraverso la separazione, la raggelante lontananza dalla fonte, in perenne lotta d’amore e odio con sé stesso e con Dio. Una potente e cruda poesia di parole incarnate che si fanno epifania colma di luce e d’ombra nell’intensa interpretazione di Rubino, inno d’amore disperato per quanto di più sporco e vero c’è nell’umano.
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LUCIFERO: bestemmia e preghiera incarnata

Una scena vuota e aperta, al centro una scala di legno rovesciata rispetto agli spettatori, lampadari di vetro a terra, sullo sfondo una scala con i gradini rivolti al cielo. Uomini e donne grevi e violenti si accaniscono su un corpo nudo e sporco di terra fragrante, gli sputano addosso, lo colpiscono, lo sporcano di urina e feci, calpestano un paio di ali bianche malridotte a terra, mentre volti crudeli e sconci appaiono proiettati sul fondale, immersi in una litania fonosimbolica che inanella, come in un rosario al contrario, parole di accusa e derisione. Rimasto solo, l’angelo caduto, nato “a rotta di collo”, inizia il racconto della sua cacciata, bestemmia e preghiera incarnata in un corpo inquieto, possente, tremante, smanioso di vita, avido di sensi e di risalita, appeso al limite di quel precipitare nel gelo di un inverno letteralmente infernale. Dall’alto riverbera la presenza di un alter ego, Dio e il suo algido e stagnante Paradiso, così abile a recintare e dividere, a cui per una volta è sfuggita la cattiveria di esiliare chi non è intonato, chi resta irriducibilmente disadatto, chi non smette di cambiare per estremo amore del mutamento. L’azione si tende verso il basso e verso l’alto, lacerata memoria dell’intimità col divino e simultaneamente rituale di separazione, inno alla disobbedienza per peccato di identità, per peccato di libertà. Fragile e onnipotente, in Lucifero si condensano la miseria e la grandezza dell’uomo, gettato a caso nel mondo e ostinatamente rivolto alla nostalgia di un ritorno che è anche scalata all’Olimpo, titanica sfida all’Assoluto.
LUCIFERO: caravaggeschi Squarci di grazia

Le potenti parole di Chiara Guarducci tremanti d’amore e rabbia, sembrano nate già in azione scenica, poesia-corpo, poesia-respiro, non scindibili dall’interpretazione di Fabio Rubino, mimicamente aderente all’intensità materica di ogni immagine evocata. Il testo e il gesto si fondono in un amplesso struggente e surreale, a tratti disturbante per il dissolversi di ogni tabù e di ogni manicheo immaginario in cui relegheremmo volentieri quell’urlo terrorizzato di bambino ( “Allora mi lasci qui?” ) che ci commuove di compassione e appartenenza. La regia di Paolo Biribò si condensa al centro della scena, cesellando nelle tenebre quel corpo aperto sulla ferita originaria, stagliando le immagini con lame di luce che aprono squarci di grazia, con la stessa cruda spietatezza di una tela di Caravaggio. L’effetto che si ottiene è l’emozione che si prova (lo si percepisce nel silenzio intenso e sospeso del pubblico, anche al termine dell’ultimo dei molti applausi) davanti al numinoso, davanti ad un archetipo potente che, in Lucifero, si sprigiona con le mille sfumature che il suo mito racchiude. Angelo della diversità, dell’ibrido, Orfano ribelle, luce precipitata, centauro irrisolto, impastato di fango e logos, un’Alice oscura, rotolata a ritroso nell’incubo d’esser costretta a scegliere tra l’Amore e l’obbedienza a tutto sé stesso.
LUCIFERO: il teatro come rivelazione
In LUCIFERO, prima pièce teatrale della Guarducci, messa in scena per la prima volta nel 1999 e inserita nella raccolta La neve in cambio, si coglie la potenza evocativa e mistica del teatro inteso come spazio di rivelazione, di incarnazione mimica di verità universali e salvifiche proprio per la loro aderenza alla realtà particolare e cruda, esposta e amata tutta intera. L’ego dell’artista si dissolve, diventa canale, corda vibrante capace di trascendere il qui ed ora per una dimensione trans-personale. Si realizza così in maniera alta l’augurio che il maestro Orazio Costa, il cui contributo pedagogico si intuisce profondamente nell’opera del regista e del protagonista di Lucifero, formula nel suo Vademecum per l’attore, chiamato a farsi “angelo della parola, acrobata dello spirito, danzatore della psiche, messaggero di Dio e nunzio a se stesso e all’universo di un se stesso migliore.”
LUCIFERO
di Chiara Guarducci
con Fabio Rubino
e le voci dentro Compagnia Lu Campanile
con Dhemetra Di Bartolomeo, Fulvio Ferrati
regia Paolo Biribò
produzione Archètipo in collaborazione con EsTeatro e Officine Arca