Dal 30 settembre 2021 al 27 febbraio 2022 la città di Firenze ospita l’opera di Jenny Saville, artista di spicco nel panorama pittorico contemporaneo, coinvolgendola all’interno di un progetto espositivo importante e ambizioso. Ideata e curata da Sergio Risaliti, Direttore del Museo Novecento, questa grande retrospettiva vede coinvolti cinque tra i maggiori musei della città in un dialogo diffuso tra lezione classica e sensibilità contemporanea. Incontro unico e a tratti totalizzante con un’artista in costante confronto con chi, da Michelangelo a Francis Bacon, ha fatto dei corpi il luogo in cui saggiare il peso della carne. Ed è attraverso il peso della carne come interrogazione del mezzo pittorico che Saville muove la sua personale ricerca: un’etica della visione capace di dar forma ad un possibile umanesimo contemporaneo.
Contenuti
SAVILLE E IL RAPPORTO COI MAESTRI
Georges Didi-Huberman ci ricorda che “la pittura possiede i mezzi della propria distruzione”. Anche Saville sembra saperlo, per questo forse dipinge con occhi bene aperti, attenta a non correre l’arrischio della pennellata ‘ultima’, quella capace di mettere a morte l’intera figura ma anche rovesciarla nel suo ‘quasi nulla da vedere’, di renderla irriconoscibile come un corpo attraversato da tormenti, di fare del colore umore e sintomo. Bordo in eccesso.
Scegliere di dipingere ad occhi aperti: per mantenere cura e attenzione, saper distinguere ed evitare di avanzare a tentoni afferrando il lembo che scuce, certo, ma così rinunciando forse anche all’azzardo di palpare lo spazio ed afferrare materia ‘alla cieca’, nella vertigine del buio dal cui fondo ‘avanza’ la carne. Quel lembo ‘in avanzo’, appunto, inappropriato perché inappropriabile. Incollocabile se non come battuta d’arresto e rigurgito osceno. L’oggetto d’angoscia per eccellenza, tra passione e insopportabile attrazione. Il nudo della carne: rappresentarlo o produrlo, descriverlo sul ‘corpo del soggetto’ o ‘farlo accadere’ sul corpo della pittura. Francis Bacon – tra i richiami di Saville ed in continua risonanza attraverso le opere qui esposte – fa di quest’ultimo l’inciampo della sua ossessione, contaminandolo con occhi iniettati d’umori contro gli umori della tela. Parlare di carne, in Bacon, è parlare di carne macellata: non ha volto, non è volto, ma questo non ne fa carne morta; attraversa – attraversata – tutte le possibili sfere della sensazione. Sostiene ad esempio Leiris che i suoi quadri gridano presenza in un modo assoluto. La materia cade costituendo una pozza, un eccesso di sostanza: di presenza appunto. Per fare questo, Bacon fa dello ‘stile’ uno ‘stilo’: affonda, tastando e ‘disossando’ le essenze, per provocarne il ‘processo’. Anche Bacon, come Saville, si confronta con i ‘maestri’ del passato, ma non per omaggiarli o comprenderne il segreto, quanto per sottoporli ad un rito di crudeltà: attraverso le molte versioni del ritratto di Innocenzo X di Velázquez, per esempio, è come se avesse voluto trascinare l’opera e la stessa storia dell’arte nella catastrofe. E ha scelto di farlo mantenendosi a distanza dal ‘maestro’, guardandosi entrambi – lui e Velázquez – sempre da lontano. Sembra infatti che Bacon non abbia mai voluto vedere l’originale: ha continuato a studiarlo, lavorarlo e sfinirlo nella distanza, attraverso le numerose stampe e riproduzioni. Come se, più che la forma, cercasse di isolarne l’insistenza. Eliminando così spettatori e spettacolo.
Altra è la strada scelta da Saville, che si accosta invece ai maestri – Michelangelo fra tutti – percorrendo il filo ideale di una trama possibile attraverso il dialogo tra forme, per esplorarne la forza d’eloquenza e ‘l’impaginazione’ espressiva. Una ricerca animata da empatia, che necessita appunto di mantenere gli occhi bene aperti per potersi percepire nella consapevolezza del riconoscimento. Credo significativo che in più occasioni venga ribadito dai curatori stessi il forte legame tra “conquista della verità in pittura” e “sapere perfettamente cosa e come guardare” in riferimento alla volontà pittorica di Saville.
“È stato meraviglioso ‘dialogare’ con Michelangelo, l’ho sempre considerato il più grande maestro dell’arte, capace di esprimere l’arte al massimo: adesso fa parte di me, è dentro di me” ha dichiarato la stessa Saville in un’intervista. Così, al Museo dell’Opera del Duomo, nel grande pannello posto al fianco della Pietà Bandini (tra le ultime opere di Michelangelo), il disegno Study for Pietà (2021), Saville fa della materia pesante e tormentata dei corpi michelangioleschi – a loro volta tormentati, in quanto ‘forme’, dalle lesioni interne della materia da cui tentano di uscire – un panno in cui raccogliersi figurativamente nell’intreccio della scena, per impaginare la composizione dov’è trascritto e reso leggibile un messaggio, “la condanna di ogni violenza umana, facendo parlare con segni drammatici il tema della pietas, l’esperienza del lutto e del compianto” come riportato nella nota di presentazione della mostra, che continua: “un vesperbild attuale, presente e senza tempo, di una stessa universale poetica tragicità quanto quella del gruppo scultoreo realizzato da Buonarroti”. È dunque l’eloquenza ciò che viene sottolineata come punto d’appoggio tra le due Pietà, iscrivendo così l’opera tutta nel senza tempo dell’Idea.
Il dubbio, pur nel disegno che si cola o si rende evanescente sulla tela grezza di Saville, è quello di essere di fronte, qui, ad una leggibilità senza resti. Quei resti che, producendo materia rovinosa che esorbita il Codice, rendono invece la Pietà Bandini di Michelangelo così seducente e così tremenda, così irrequieta tra incarnato e crudezza minerale. Impura, nel suo essere bordo e resistenza in atto. Ciò che trattiene lo sguardo ancora qui, nel Museo dell’Opera del Duomo, a vagare – in modo affatto innocente – nello spazio evocato tra le due Pietà, è che proprio in questa sala “l’appassionato e coinvolgente dialogo di Saville con le opere iconografiche di Michelangelo raggiunge l’acme”, come scrivono i curatori. Si tratta quindi di assillare un altro po’ l’articolarsi di questo spazio di confronto, ‘insisterlo’ qui dov’è maggiormente dichiarato ed esposto nella temporalità provocata: una continuità giocata sull’empatia delle rassomiglianze, una complicità poggiata sulla visibilità. E proprio nel gioco delle rassomiglianze, questo spazio evocato sembra però spalancarsi tra le opere come un silenzio vuoto e senza immagini, dove la complicità si è come rovesciata in distanza assoluta. Il ‘senza tempo dell’Idea’ non può che incarnarsi come cicatrice ‘altrove’.
SAVILLE E L’ACCADERE DELLA CARNE
Così come lo sguardo, non esiste immagine innocente: è sempre implicata, sempre compromessa in una temporalità complessa e mai ideale, dove “non è più l’universale a realizzarsi nel particolare, ma il particolare a disseminarsi ovunque, senza sintesi definitiva”, come scrive Didi-Huberman, autore di cui abbiamo ‘inseguito’ la provocazione iniziale e che nel 2015 è stato ospite per una lectio magistralis proprio nel Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio, dove attualmente è esposta quella che viene considerata “l’opera monumentale di maggior risonanza, che consacrò definitivamente Jenny Saville con la sua prima mostra”; parliamo del dipinto Fulcrum (1998-99). Qui, tra i grovigli pulsanti di corpi in lotta che fanno delle geometrie del salone un punto di fuga, si contrappone la saturazione di questa tela. Come un’esitazione in cui il crollo flaccido delle strutture porta all’indistinzione delle forme, prossime al grumo e al vischioso. Corpi gonfi e lividi legati l’uno all’altro per non cadere come massa inerte, ingombro crollato e oppresso dal suo contenitore come una rosa marcita.
Il fulcrum è un giro di corda, dove l’eccesso si rovescia in inerzia e il tocco ha il peso schiacciato della decomposizione. Tumefazione del colore, il corpo come peso ultimo e incollocabile, un resto ‘in avanzo’ d’opera. Gli stessi volti che emergono sono appena un ‘avanzo’, il rigetto di ogni metafora, rimasugli o accenni di una poetica trascinata alla rovina. Non c’è più alcun supporto o composizione a fare da appiglio. Quell’intervallo attraverso cui i corpi possono offrirsi in immagine è già divorato da ciò che lo precede e lo oltrepassa. Tentando di lavorare contro il disastro, la pittura non può che continuare a portarne i segni, mantenere la traccia di ciò che smentisce: quel ‘non sapere’ che scava la carne come materia ritmata e muta, facendo del ‘pittorico’ una pelle sconciata con sopra incisa una preghiera o una maledizione. Qualcuno ha scritto che “chi lotta contro il disastro non fa che portarlo sempre altrove. L’avvenire, del resto, è il disastro altrove”. Non può esserci pittura capace di ‘purificarsi’ dalla sua tragedia inaugurale.
SAVILLE E L’ETICA DEL NUDO
“Tradurre un fatto brutto in un evento estetico… immagino sia facile per me… mi interessa […] il fatto di produrre qualcosa di brutto e renderlo desiderabile. Io riesco a rappresentare solo ciò che vedo”. In questo brano, tratto da un’intervista rilasciata a Barbara Galati e riportata online dal sito luxflux.net, Jenny Saville condensa la cifra e l’etica della sua prassi estetica. È nelle sale del Museo Novecento, dove tra disegni e dipinti troviamo esposta la serie più cospicua delle opere di Saville, che possiamo effettivamente attraversare e percepire questa sua dichiarazione, agita e riflessa dai volti ‘integri’ e contemplativi dei suoi ritratti: integri appunto, concentrati nei confini, senza strappi. Jean-Luc Nancy scrive che “l’immagine è ciò che si strappa. Porta in sé il segno di questo strappo: il fondo mostruosamente aperto sul suo fondo” per aprirsi e “aprire la nostra intimità gettandola davanti a noi”. Qui, sul bordo della crudeltà – da Artaud a Bacon, da Bataille a Manet, da Schiele a Lucian Freud – ‘il dito’ si immerge nel tratto e ‘qualcosa’ si scrive sulle sabbie della carne.
Fuori da Eros e Thanatos che sospingono il tocco nell’oltranza allucinatoria, Saville ferma invece la pittura dove altri non hanno voluto o potuto fermarla, arrivando a scannare le loro stesse figure. Saville si ferma sulla pelle delle cose, sulla figura mai davvero sfigurata, sulla rappresentazione che fonda la possibilità per le sue opere di essere riconoscibili e riconosciute. Le trattiene nel bello, dove anche la mostruosità è comunque prodiga di consolazione. Le tumefazioni restano sul velo come pitture sulla pelle. Il pennello simula la lama preservando la rappresentazione, e facendo così della tela il luogo di una possibile e trionfale redenzione. C’è qui tutta la cura della madre nel trattenere i volti fuori dall’oltraggio, rivestendoli di un’idea forte; non la disperata passione iconoclasta dell’amante, quella capace del gesto crudele in grado di far crollare l’ideale e violare ogni rapporto con l’identità: lì dove l’opera è sospesa al rischio del proprio disfacimento, del proprio nulla. E noi con lei. Spettatori e spettacolo in bilico nella reciproca liquidazione.
Anche nei suoi numerosi disegni, compresi quelli riguardanti la maternità, ciò che la nudità offre è sempre e ancora la pluralità dei corpi: esposti docili alla loro tessitura, prima; poi alla scomposizione in florilegio della loro trama, scuotendo qualche filo del disegno. Ma come sapendo di non correre mai il rischio di essere scuciti e rovesciati sul fondo. Inizio e fine sono già lì, indecomponibili. Lì per essere goduti. Estetizzati ed anestetizzati come atto di cura. Sono corpi quieti, disposti e disponibili senza mai davvero essere lascivi: la nudità come luogo dell’infinita disponibilità del corpo a lasciarsi guardare. Forse, non c’è altro umanesimo possibile che quello capace di riconsegnarci la forma di una ‘carne già redenta’. Dove l’immagine si è già decisa senza essere deposta, e dove il colore è sottomesso alla volontà del suo progetto, non alla sovranità insensata del ‘getto’. Prima che un gesto venga dato in pasto all’occhio e qualcosa rovinosamente ‘resti’, indifferente al voler essere qualcosa: indifferente quindi all’empatia della soggettività. Quell’empatia a cui la pittura, costretta in questi volti, in questi corpi, costretta a ‘dimostrare’ di saper significare l’universale, sembra invece essere condannata.
OPERE
Copertina: Gestation, 2017, Pastello e carboncino su carta montata su cartone telato, 200 x 152 cm
Jenny Saville Firenze, Installation view, Museo dell’Opera del Duomo
Fulcrum, 1999, Olio su tela, 261.6 x 487.7 cm
Chasah, 2020, Olio su lino, 200 x 160 x 3 cm
BIOGRAFIA
Nata a Cambridge nel 1970, Jenny Saville ha frequentato la Glasgow School of Art dal 1988 al 1992, trascorrendo sei mesi presso l’Università di Cincinnati nel 1991. Durante questo soggiorno ha inizio per Saville l’interesse e la fascinazione per le ‘imperfezioni’ della carne; decisivo per la sua formazione anche l’incontro con la letteratura femminista, che svolgerà un ruolo importante lungo tutto il suo lavoro sulla fisicità dei corpi. Subito dopo la laurea, l’incontro col gallerista Charles Saatchi spingerà il lavoro di Saville al riconoscimento internazionale. Nel 1994, grazie a una borsa di studio nel Connecticut, Saville ha la possibilità di osservare e scattare fotografie durante gli interventi del Dr. Barry Martin Weintraub, chirurgo plastico di New York, approfondendo così la percezione della resistenza e della fragilità dei corpi attraverso l’esperienza delle manipolazioni cui la carne può essere sottoposta. È con la mostra Sensation del 1997, presso la Royal Academy of Arts di Londra, che Jenny Saville conquista grande notorietà. Vi partecipano, tra gli altri, anche artisti del calibro di Damien Hirst, Dinos Chapman, Gary Hume e Tracey Emin, membri degli Young British Artists (YBAs), gruppo aperto di pittori e scultori cui appartiene anche Saville. La sua formazione, intessuta dallo studio attento di Francis Bacon e Lucian Freud, trova inoltre un importante punto di riferimento nella collaborazione e nel confronto con esponenti di spicco del mondo della fotografia come Cindy Sherman, Glen Luchford e Sally Mann. Attualmente vive e lavora a Londra.