Unica replica al Quaranthana di San Miniato per HESS di Kanterstrasse, con un superbo Tazio Torrini in scena, insieme a Simone Torrini per drammaturgia e regia. Un testo micidiale per ambiguo malessere, per oscurità e dannazione, un testo tessuto di brevi rumori e scoppi e urla, dieci comandamenti della discesa agli inferi e una parabola incomprensibile eppure percepibile sulla tache noire che sta dentro ogni essere umano, sull’ombra delle sbarre che si proietta nell’interiorità di ciascuno di noi.
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LA METAMORFOSI DEL TEATRO QUARANTHANA PER HESS
Un luogo teatrale, dai tempi del teatro di Dioniso, ha una propria inviolabile corporeità. Sono pietre, mattoni, una struttura. Ma un luogo teatrale, per definizione, è anche fluido, flessibile. Il teatro di Quaranthana, per accogliere Hess di Kanterstrasse, si sottopone a metamorfosi. Si piega, si curva, diventa una enorme lente, o meglio, una boccia di vetro, dentro la quale si muove un pesce inaudito: sì, proprio Rudolf Hess, il gerarca collaboratore del Führer, rinchiuso nel carcere di Spandau di cui è l’ultimo, imbarazzante detenuto. La visione, in realtà, è tradizionale: il pubblico entra e si siede frontalmente, sostiene con lo sguardo una quarta parete dietro la quale l’attore consuma la sua minestra già da prima dell’ingresso degli spettatori, e continua a farlo, assorto, passivo, insieme concentrato e non, preda di un obbligo categorico che gli impone di inghiottire e assorbire il brodo caldo su cui soffia ad ogni cucchiaiata, mentre la gente si siede, si sistema, dapprima lo ignora, chiacchiera, si estranea, poi, ad uno ad uno, l’incantesimo ci cattura, scende il silenzio, un silenzio fatto di brevi rumori, di strane luci pittoriche, di buio, di un essere corporeo che là, vicino e lontano, si nutre. Lo vediamo, certo. Lo spettacolo è tutto sguardi. L’attore ci nega il suo sguardo: solo quello. Così vicino com’è, sentiamo tutto di lui: il respiro, il frusciare dei calzini sul palcoscenico di legno, il pulviscolo bianco che gli cade dai capelli. Bianco anche il volto, un colore di divina purezza e divino orrore. Hess è una specie di cetaceo che sbanda nell’acquario, è un animale ingobbito e prigioniero che si muove a strappi nella gabbia della mente, è un sopravvissuto aureolato di polvere incolore come chiunque si sia mosso troppo vicino a quelli che Eugenio Montale chiamò “i buccellati dai forni”. Parla. Ma non a noi. Forse a Dio, forse al vuoto. Ne perdiamo il contatto visivo, e allora lo cerchiamo, tentando di coglierne il segreto nei due schermi video che ce ne offrono visioni inedite, di lato, di spalle: anche così, non lo troviamo mai.
KANTERSTRASSE E IL SIGNIFICATIVO LAVORO SULLA DRAMMATURGIA
Hess (incarnato da un superbo Tazio Torrini) ci sfugge sempre. Si rintana nei meandri del testo di Alina Nelega, drammaturga scrittrice e docente universitaria rumena, rappresentato per la prima volta in Italia nella traduzione di Horia Corneliu Cicortas e la drammaturgia dello stesso Torrini e di Simone Martini. Il lavoro sul testo è incisivo e significativo. Questo lungo one man show potrebbe costituire un pezzo di bravura per il protagonista, e spingerci ad un’immedesimazione, a un’umanizzazione del pesce mostro che sbanda curvo nell’acquario di Spandau solo perché, come scrisse Shakespeare, “è questo l’inganno dell’arte”. Invece l’articolarsi del testo in un labirinto insensato, l’irraggiarsi in molteplici potenziali percorsi subito ricurvi su loro stessi, senza uscita, ridondanti, una specie di incantesimo ribattuto e crudele, negazione di senso, ci allontana qualunque possibilità di immedesimazione. Talvolta, contratto nella sua follia, nella sua corporeità ricurva e ritmata, Tazio Torrini è rivoltante, quando la sua voce magnifica stride in un soliloquio maniacale e la bava gli cola dalle labbra in un’estetica del brutto divinamente orribile. Delira, ma c’è del metodo nel suo delirio, ci sono comandamenti non portati a termine; c’è, forse, un’allusione non tanto all’insensatezza nazista, quanto proprio alla nostra umana incapacità di farci luce, di trovare senso, di riordinare parole, di percorrere strade che abbiano una qualche meta, quale che sia. È una metafora, sì, ma non banalmente del regime crudele, dell’incantesimo folle di chi ha pianificato l’Olocausto, ma proprio della difficoltà dell’intera umanità a vederci chiaro, a liberarsi, a trovare senso e scampo. Neppure la morte ci fa belli. Che Hess si suiciderà ci viene subito annunciato: e non è catarsi. Del resto, non ci è dato vederlo morire: solo il fondale si illumina vibrando di rosso scarlatto: sangue? Di vita o di morte? Chissà. Può esser castigo, può esser misericordia.
HESS
di Alina Nelega
(titolo originale: Decalogul dupa Hess, I dieci comandamenti secondo Hess)
traduzione Horia Corneliu Cicortas
con Tazio Torrini
drammaturgia Simone Martini, Tazio Torrini
regia Simone Martini e Tazio Torrini
luci Simone Benucci
regia video Blanket Studio
Teatro Quaranthana, San Miniato
28 gennaio 2022