Vertice della Festa del Teatro a San Miniato in questi giorni DRAMMA INDUSTRIALE, performance relativa a Giorgio La Pira e al vertiginoso salvataggio della Pignone dal fallimento, con conseguente licenziamento di duemila operai e ferita profonda nel tessuto sociale di Firenze. Riccardo Favaro, drammaturgo e Giovanni Ortoleva, regista, compongono un’operazione inattesa che segna l’acme di un festival veramente incisivo e propositivo. Leggi anche il reportage della prima parte del festival su Gufetto.
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DRAMMA INDUSTRIALE: il mistero della scrittura

Ricostruire un episodio di Storia del Novecento in teatro è possibile? Molti uomini di spettacolo direbbero di no. Il teatro deve fornire spazi alternativi alla realtà, anche nella sua incarnazione storica: altrimenti si ricorre a film, a documentari, che talvolta sono commoventi proprio nell’inflessibile durezza e crudeltà del reale. Ricostruire una grande e complessa figura in scena si può? Senza incappare in agiografia, in ritmi da serie televisiva, in vuotezza sintetica? Si può. Lo dimostra in primo luogo Riccardo Favaro, autore del testo, che saggiamente sceglie di non virare sulla biografia completa e di concentrarsi sulla celebre vicenda del Pignone e il tentativo eroico del sindaco di Firenze, Giorgio La Pira, di evitare che duemila operai venissero licenziati salvando la fabbrica dal fallimento. Con il punto di vista di chi è troppo giovane per essere testimone dell’evento, deve porsi, per ricostruirlo, in parte nelle vesti di un archivista – rintracciando lettere, ricostruendo telefonate – in parte in quelle di un artista – tracciando un ritratto sfumato del paese e del momento “dalla Storia, al sogno, all’incubo” in un andirivieni ritmico che vede decifrarsi, o alludersi, la realtà.

Il primo monologo di La Pira, con l’ossessivo cambiamento di momenti, di parti del giorno, di stagioni, con l’offerta non rifiutabile di cibo, di vesti, di riposo, dice molto sulla determinazione inconscia di una figura che è insieme un politico e un asceta, che tenta con tormento e pervicacia di cucire etica, impegno sociale e testimonianza religiosa. Oltre ad essere angosciante ed efficace il testo è coraggioso, nel suo alternarsi fra realismo, sogno e profezia, nel suo plurilinguismo che si innesta con audacia insolita nella scelta di un linguaggio alto, letterario, una “parola” che, come scrisse Mario Luzi, deve “volare alta”, trascinando con sé anche il commercio non sempre limpido della politica verso regioni di ascetica coerenza, di assoluta dignità. Nella Profezia che costituisce l’Epilogo il monologo di Enrico Mattei ricorre addirittura alla rima, diventa una canzone, non sempre libera, peraltro, perché la tessitura di rime e assonanze lo sposta con eleganza e coraggio nelle regioni di una poesia narrativa che, avendo per oggetto la politica, risale diritta verso le invettive dantesche: e altresì dantesca, inequivocabilmente, è proprio la fusione tra passato e futuro, tra flash back e flash forward, fra poesia e invettiva. Proprio come Dante, scriba dei, aveva dovuto percorrere i tre regni per fornirci ammonimenti sul futuro, l’Epilogo di Favaro lancia uno sguardo in avanti verso la decadenza, la tentazione della corruzione, e infine, saluto e freccia indicatrice, conclude con “abbiamo parlato troppo. / A Dio”.
DRAMMA INDUSTRIALE: le scelte della regia

“Il braccio di ferro che riguardò la sorte di duemila operai si colloca precisamente fra l’uscita nelle sale di Alice nel Paese delle Meraviglie di Disney (1951) e la morte di Bertolt Brecht (1956)”, dichiara Giovanni Ortoleva, che decide di declinare il testo di Favaro non rinunciando a nessuna delle due suggestioni. Così l’unico arredo scenico (scenografia di Federico Biancalani) è un enorme tavolo, intorno al quale i personaggi si muovono, si siedono, mangiano pasticcini, reiterando il the del Cappellaio Matto (non a caso le zampe del tavolo affondano nell’erba di un giardino sfumato e impreciso, in cui la realtà si nasconde). Gli attori entrano ed escono dalla fabula per piombare nei loro sogni, negli incubi, per abitare le loro stesse lettere, per perdersi in luoghi misteriosi dove altri prima di loro si sono persi. Cambiano maschera, incarnano, magistralmente, alcuni enormi pupazzi, a grandezza naturale, che rappresentano altre figure riconoscibili o no, uomini politici o comuni cittadini, comunque anche loro coinvolti nel ballo lento della politica. Che è certamente una danza, un banchetto: una tavola a cui bisogna sedersi, entrando in contatto con amici e nemici, sorridente e spaventosa, ed efficiente. E come nel the del Cappellaio si parla, si cambia posto, ci si incrocia e ci si perde, così i personaggi intessono reti di rapporti, da cui poi, brechtianamente, escono, balzano fuori, pronunciando lunghi monologhi didascalici, chiavi di volta di quanto sta avvenendo, e sul palco e nella nostra coscienza di spettatori – e di persone.
DRAMMA INDUSTRIALE: gli interpreti

Incarnano la tensione del testo e le scelte registiche cinque attori superbi: Christian La Rosa impersona un La Pira umanissimo e capace di salti vertiginosi nell’altra dimensione, quella della realtà che “non è quella che si vede”: lo tormentano e lo affiancano Stefania Medri, unico personaggio femminile, giornalista polemica e personaggio di sogno, e Stefano Braschi, il primo proprietario della fabbrica in fallimento, egoista, infantile, alla fine ridotto a una specie di bambino infelice e fastidioso che dondola nei suoi capricci le gambe dal tavolo. Edoardo Sorgente crea un Fanfani limitrofo e lontano al protagonista: infine Marco Cacciola è Enrico Mattei, mattatore dell’ultima parte, capace di reggere l’ultimo monologo con lo stesso prestigio dell’angelos della tragedia greca. Il pubblico si lascia trascinare e si impegna a ragionare, e fra pathos e logos gli applausi confermano l’eccellenza di questo teatro, sacro e provocatore, che sposta di un’altra tappa il consueto viaggio del pensiero che sempre il Dramma, ogni anno, autorizza a continuare.
DRAMMA INDUSTRIALE (FIRENZE, 1953)
Di Riccardo Favaro
Regia Giovanni Ortoleva
Con Stefano Braschi, Marco Cacciola, Cristian La Rosa, Stefania Medri, Edoardo Sorgente
Assistente alla regia Alice Sinigaglia
Scenografia di Federico Biancalani
Musiche Guarracino Pietro
Costumi Graziella Pepe
Elsinor Centro di Produzione Teatrale, Fondazione Teatro della Toscana, Fondazione Istituto Dramma Popolare di San Miniato