ANTIGONE @Teatro dei Borgia: cerimonia o provocazione? È aperto il dibattito 

Ad aprire il programma della terza edizione de Il Respiro del Pubblico Festival 23, Cantiere Obraz ospita nel Cimitero Evangelico degli Allori di Firenze l’ultimo lavoro del Teatro dei Borgia: ANTIGONE. CERIMONIA CON CANZONI, la trasposizione contemporanea del mito classico negli anni recentissimi, e ancora controversi, della pandemia con le conseguenti limitazioni delle libertà. ANTIGONE di Teatro dei Borgia è il compimento di un rito, una CERIMONIA CON CANZONI – come recita il titolo – non spettacolarizzata, una commemorazione funebre collettiva tra attori e spettatori dei defunti di una famiglia, quella di Ninni (Antigone), celebrata dai soli superstiti Lulù (ovvero la sorella Ismene) e lo zio (Creonte) interpretati da Elena Cotugno e Christian Di Domenico, accompagnati dalla musica e dai canti di Luna D’Intino e Sabino Rociola alla chitarra. La drammaturgia trasporta i temi classici del mito ai nostri giorni, come nello stile della compagnia per il progetto La Città dei Miti, presente nelle passate edizioni del festival (recensite su Gufetto) con Filottete dimenticato, Medea per strada ed Eracle l’invisibile. Ma cosa vogliono dirci Teatro dei Borgia con questa rappresentazione che suscita diverse emozioni, anche contrastanti? È aperto il dibattito.

Articolo a cura di Leonardo Favilli e Sandra Balsimelli

ANTIGONE: il rito collettivo del dolore

cast ANTIGONE foto di Luca Del Pia
cast ANTIGONE foto di Luca Del Pia

LF – Cristianamente la definizione di fratello supera notoriamente i confini anagrafici e parentali per cui chiunque all’interno della comunità merita una degna sepoltura, per rinsaldare quel legame sottile ma indissolubile tra noi, i vivi morituri, e loro, che hanno già affrontato l’esperienza della morte. Accogliere, accompagnare, accomiatare: queste le tre parole chiave della celebrazione cui abbiamo assistito al Cimitero degli Allori di Firenze. Trasposta la narrazione negli anni Venti del Duemila, il divieto del mito di ANTIGONE di seppellire il corpo di Polinice diventa l’impossibilità di commemorare i propri morti per DPCM di confinamento, mentre le bare sono conservate e pronte per il loro trasferimento in completa solitudine – tutti abbiamo ancora negli occhi le immagini, terribili, dei camion militari che escono da Bergamo. L’impossibilità di poter compiangere un caro defunto nella solitudine di un letto di terapia intensiva è forse, a posteriori, il dolore che i vivi hanno più sofferto mentre in quella stessa solitudine, spesso, ci veniva chiesto di tenere duro perché “Andrà tutto bene”. ANTIGONE offre al pubblico la possibilità di partecipare e di compiere quel mancato rito commemorativo tutti insieme. Nella cappella adiacente all’atrio dell’ingresso ci accolgono le luci fredde, l’umidità di inizio novembre e il silenzio: l’occasione, troppo spesso evitata, di raccoglierci e dedicare un pensiero ai nostri cari – di cui ci invitano a scrivere i nomi su una mascherina – contattare i ricordi, fatti di sensazioni, di vecchie foto, di piccoli cimeli, insignificanti per molti ma significanti per noi; la possibilità di accompagnare i morti per non lasciarli più soli.

ANTIGONE: la rivolta contro l’autoritarismo

ANTIGONE, Cimitero degli Allori, foto di Alessio Belloni
ANTIGONE, Cimitero degli Allori, foto di Alessio Belloni

SB – Lo spettacolo incarna una disturbante dimostrazione di uno dei fenomeni più tossici e intossicati della nostra civiltà: l’assoluta rimozione del dolore, della morte, dell’anormalità, di ogni fenomeno sociale che comporti l’assenza di controllo, quella rivolta contro l’autoritarismo simboleggiata da ANTIGONE nel mito classico. La tragedia di Teatro dei Borgia si materializza in una stucchevole, forzatamente sorridente commemorazione dei defunti, con canzoni da oratorio e melassa da gruppo di autoaiuto in cui annacquare l’orrore per la morte nell’ormai logoratissimo mantra Andrà tutto bene. E il contesto è proprio quello più recente della pandemia, dei morti insepolti o almeno non pianti, non registrati dall’oblio pubblico, sospeso, con schizofrenica assertività, tra la negazione del pericolo e la sfida proterva alla regola. In scena anche la reazione psichica di molti, di moltissimi di noi, incrinati dalla scoperta inattesa della fragilità di specie: aggrapparsi al rispetto di una legge, istituzionale o personale, col fanatismo di chi è convinto (o ha drammaticamente bisogno di esserlo) di essere dalla parte del Bene. Ne è un esempio lo Zio, un Creonte contemporaneo, regista effettivo della scena, la bocca increspata in un sorriso contraddetto dagli occhi severi, attenti, giudicanti e un piglio trattenuto e autoritario nella voce a inibire frammenti di ricordi che rischiassero di portare alla luce, in mezzo a sorrisi e brani musicali a più voci, una storia tragica e tragicamente distorta. Gli altri personaggi – la sorella sopravvissuta, l’amico di un suicida, la cantante prigioniera del perfezionismo indotto dal suo stesso talento – si muovono in una tensione crescente che si acuisce tutte le volte che guizza fuori un rigurgito di sentimento autentico, dolore, rabbia, amore.

Una rivoluzione inespressa

SB – Tuttavia lo spettacolo non scarica mai il suo potenziale tsunami critico, raggelandoci in un clima di fasulla cortesia, di malcelato autoritarismo: il dolore, di per sé sovversivo, come la morte e la disobbedienza, va negato con forza, a costo di tacitare o indurre all’autocensura chi ne è portatore sano. Forse perché il vero contagio pandemico che il sistema teme è il pensiero critico e la riconnessione dell’individuo all’autenticità delle emozioni che integrerebbe l’urlo, il pianto, la danza sfrenata, ciò che ha tentato di fare Antigone: la rottura della teca di cristallo blindata, in cui la nostra burocratica società dei protocolli ci ha murati vivi dentro.

La guerra di Tebe e la peste del covid

Elena Cotugno in ANTIGONE di Teatro dei Borgia
Elena Cotugno in ANTIGONE di Teatro dei Borgia

LF – ANTIGONE nel mito classico sfida la Legge pur di recuperare il corpo del fratello, rimasto ancora sul campo di battaglia in una guerra fratricida che era, e purtroppo è drammaticamente ancora oggi, una pestilenza senza fine. Il corpo, anche alla fine della vita, resta parte integrante di un’esistenza che noi vivi ci sentiamo responsabili di dover tramandare col ricordo in un’operazione che nella cultura cristiana si accompagna con la riabilitazione. La morte sembra portarsi via ipocritamente con sé i difetti, le cattiverie, gli sbagli di chiunque, come se rappresentasse un’espiazione automatica e presumibilmente non voluta dei cosiddetti peccati: così Ismene pronuncia con un sorriso imbarazzato l’appellativo per il fratello “lo stronzo” che solo la “matta” Antigone ha voluto salutare contravvenendo ad ogni regola. Se l’esperienza della pandemia è ancora molto vicina a noi, è però arrivato il momento di superare questa fase di dolore senza cadere nella tentazione delle frasi fatte: “andrà tutto bene”, “ne usciremo migliori”, “prima o poi tutto passa”. C’è bisogno di riunirsi in un grande rito collettivo che possa esorcizzare e disvelare quei lati oscuri di una fase storica in cui, dopo l’ultima guerra, ci siamo trovati davvero tutti a familiarizzare con la morte

Curare gli incurabili, seppellire i nemici

Cimitero degli Allori, foto di Alice Capozza
Cimitero degli Allori, foto di Alice Capozza

SB – Chi resta umano e vero, gli “stronzi”, i “pazzi”, gli “irregolari” sono costretti a morire per sfuggire alla morsa dell’ottimismo totalitario. Noi invece restiamo in silenzio, con in mano una mascherina in simbolico ricordo dei nostri cari, davanti al sorriso inquietante degli attori che ci invitano a “mangiare un dolcetto” in memoria dei morti, mentre fuori piove e dentro ribolle l’angoscia di un mondo di plastica da cui non si sa come uscire. La quantità di morti e tragedie evocate nella narrazione, sebbene a tratti rischi di attenuare la credibilità, ottiene l’effetto di mostrare la soglia di sopportazione forzatamente alzata della collettività che non si smuove dal proprio abulico attaccamento al benessere senza scosse nemmeno di fronte agli scenari sanguinosi di guerra che la cronaca quotidiana purtroppo ci propone. L’importante sembra solo ripetere a se stessi “tutto bene, stiamo bene”…costi quel che costi. L’Antigone dei nostri giorni, che ha officiato un funerale individuale, violando ogni misura di controllo, in una poetica e grottesca danza sulle bare sepolte in solitudine, ci ricorda i primi giorni attoniti del covid, nei giorni in cui morire, vivere, uscire, avere un referto medico o un altro, poteva decretare l’appartenenza o l’esclusione dal corpo sano e coeso dei cittadini “per bene“, a seconda dell’ordinanza di turno. Anche questo abbiamo rimosso, una rimozione nella rimozione: quei giorni di emozioni ancestrali che hanno rievocato in ognuno di noi, volenti o no, l’archetipo oscuro della peste. La commemorazione dei morti personali diventa anche commemorazione delle vittime silenziose di quei giorni. Di fronte alla paura di morire la comunità (anche la nostra, cominciamo a ricordarlo!) tenta di stendere linee di confine divisive tra chi merita o meno di vivere e guarire, tenta di dettare l’identikit di chi si salva per le buone opere (#iorestoacasa, indossare la mascherina, rispettare il distanziamento, vaccinarsi), tra i belli e gli stronzi appunto. Chi resta a cucire la frattura, a ristabilire la possibilità di un noi? La fragile narratrice, l’Ismene docile e consapevole di questa rivisitazione contemporanea del mito, alla fine dello spettacolo prende a braccetto lo zio, finalmente incrinato dalla presa di coscienza delle sue perdite e resta al suo fianco e si appropria di quella frase ormai sinistra per ognuno di noi “Stiamo bene, Andrà tutto bene”. Forse solo dimenticando?

ANTIGONE: compimento del rito tragico…

ANTIGONE scena finale, foto di Alessio Belloni

LF – Gli attori in scena ci guidano in questo percorso di commemorazione attraverso il racconto dei loro cari – il buono, lo stronzo, la matta, la moglie e il figlio – che potrebbero essere i nostri, tanto da invitare il pubblico a condividere le proprie memorie, mentre nelle mani continuiamo a tenere la nostra mascherina e a rileggerne il nome o i nomi che vi abbiamo segnato. In un caleidoscopio di sensazioni che ci provocano sorrisi, qualche risata e complessivamente il disagio di un ambiente che è tutt’altro che confortevole, il racconto si sviluppa cogliendo di volta in volta in lontananza i riferimenti del mito classico, ma soprattutto coinvolgendoci nei nostri personali lutti, grazie anche alla musica dal vivo, mezzo efficace per accompagnare i cari estinti, come nella atavica tradizione del culto dei morti. Alla fine, dopo la commozione della scena finale, la conclusione del rito: presso il salice realizzato artigianalmente con corde e arpioni ci viene chiesto di appendere, se ci sentiamo pronti, le mascherine che abbiamo conservato tra le mani, per accomiatarsi infine dai morti con più consapevolezza e magari più leggerezza, la stessa con cui abbiamo serenamente abbandonato l’uso di quegli orpelli protettivi, simbolo di un passato recente che sembra già lontano ma con ferite a tratti ancora fresche e profonde.

…o cerimonia disturbante?

ANTIGONE scena finale, foto di Alice Capozza

SB – La conclusione nel rito finale è stato il momento più disturbante, per l’impossibilità di liberare davvero l’emozione, tutto si è svolto in modo contenuto in una parvenza di accettazione che non è reale comprensione del valore della morte nella vita umana, ma tentativo di normarla, attraverso un galateo feroce delle buone maniere che impedisce di vivere il dolore in funzione catartica. Non ho commemorato affatto i miei morti davanti al salice, non ho voluto indossare la mascherina, feticcio disturbante, ecologicamente mortifero, simbolo (al di là della sua utilità sanitaria che in pandemia ho sempre rispettato) del tentativo di sentirsi inattaccabili dalla morte e dalla sua sgradevolezza sociale. Io ho empatizzato con la pazza Antigone e la sua danza folle sulle bare senza nome, sovversiva e irregolare per il protocollo di salute pubblica ma così dannatamente umana e vera. Ma che amarezza tuttavia nel constatare l’autoreferenzialità della ribellione degli antieroi evocati dal testo: il loro disobbedire non suggerisce una visione alternativa, ma una resa suicida per solitudine ed estraneità al contesto. Manca la prospettiva dell’alternativa ai nostri tempi!  Se l’obiettivo era di lasciarci raggelati, costringerci per contrasto, a risvegliarci dal sonno dell’ autocompiacimento– o almeno è stato il risultato per me – lo spettacolo è perfettamente riuscito.

Visto il 9 novembre 2023, al Cimitero Evangelico degli Allori, Firenze

ANTIGONE

drammaturgia di Elena Cotugno
ideazione e regia Gianpiero Alighiero Borgia
con Elena Cotugno, Christian Di Domenico
musicisti in scena Luna D’Intino (voce), Sabino Rociola (chitarra e voce)
produzione Teatro dei Borgia
in coproduzione con Centro Teatrale Bresciano e Compagnie l’Eygurande 
Teatro dei Borgia con La Città dei Miti è vincitore del premio Rete Critica 22 e del premio ANCT 22
Prima fiorentina

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