FIORI DI ME @ Teatro Studio Uno: uccidere uccidendosi

Fino al 19 marzo, al teatro Studio Uno, è andato in scena FIORI DI ME, di Luna T Sveva Testori, con Simone Fraschetti, regia Klaus Kurtz.

Numerosi punti luminosi segnavano lo spazio scenico della sala specchi del teatro Studio Uno. Ogni lampada un oggetto. Ogni oggetto un personaggio. Zio Luigi era seduto su una sedia, dietro un piccolo tavolo su cui poggiavano dei libri, professore universitario di filosofia del linguaggio, prendeva vita sulla destra del palco. Alina, prostituta, sulla sinistra, era una piantana dal capo tondo come un piccolo lampione, alta, coperta da un drappo di stoffa vermiglia. L’adolescente Marta, figlia del protagonista Vito Macchi, trentanove anni, cardiochirurgo, prossimo primario, era portata in vita da una piccola torcia, somigliante ad un gelato, che illuminava la scena di luci colorate, stroboscopica prendeva posto dietro al tavolino dello zio Luigi. Gianni, vicino di casa, amico, compositore musicale, era un tubicino neon led bianco applicato all’interno del coperchio di un pianoforte a muro, nero, dietro la fiammeggiante Alina. In proscenio, a destra, su un cuscino giaceva languida Nera, la gatta: un cordoncino arruffato di lucine bianche. Vito si è lanciato in un lunghissimo monologo portando in presenza di volta in volta questi personaggi, accendendoli e spegnendoli, conferendo loro vocalità diverse.

La storia si struttura su diversi livelli. Il più superficiale racconta di questo cardiochirurgo, divorziato, che, in procinto di essere promosso a primario, dubita della sua vocazione professionale, affascinato dall’idea di voler fare il fioraio, lascito di desideri infantili. Confuso, si rivolge ai suoi affetti chiedendo loro consiglio. Tra questi affetti, una vecchia televisione, che si accende ogni qualvolta la Nera gatta morde il protagonista, porta in presenza il fantasma del padre, risolvendo questo personaggio nell’immagine di un paesaggio greco, forse Patrasso, e nell’audio di una voce preregistrata che parla allo spettatore in lingua greca. Cardiochirurgo o fioraio?

I fiori, l’ossessione che Vito ha nella testa, gli causano emicrania. Un’ulteriore substrato nella storia è dato dall’incipit, che lo spettatore è riuscito a connettere all’azione scenica solo alla fine: il racconto di un cavaliere senza macchia e senza paura, che, nel combattere un drago, si trovò un giorno ad averlo nella testa, poiché rimpicciolitosi, gli è salito su per il naso e dall’interno del suo cervello governava tutte le sue azioni, facendogli perdere il senno. Mentre il drago dormiva, il cavaliere decise di mangiare un fiore velenoso, unico modo per dare la morte al drago: darsi la morte. Mentre veniva raccontata questa favola, l’attore in scena triturava un fiore e, con una ritualità alchemica, lo metteva a macerare. Il drago è diventato, sul finale, metafora simbolica del padre. Il fiore che Vito aveva nella testa, è quello velenoso, di cui berrà l’estratto, in chiosa, brindando col padre, uccidendolo uccidendosi.

Il personaggio del Padre fa confluire all’interno del testo un altro piano tematico interpretativo: la grecità. Attraverso la vicenda del labirinto di Arianna, del filo, di Teseo che uccide il Minotauro, la rete di relazioni affettive che le luci portano in visione, probabilmente in un delirio psicotico del protagonista, sono il labirinto mentale in cui Vito stesso si è smarrito. Nella costruzione registica, l’immagine dell’uccisione del Minotauro è stata quella visivamente più suggestiva, lirica.

Si tratta di un testo e di uno spettacolo sicuramente pieni di spunti ma, purtroppo, vista l’intricata architettura tematica, nessuno di questi è stato sviluppato in modo soddisfacente. Simone Fraschetti, solo in scena, molto efficace quando raccontava se stesso, perdeva in potenza quando prestava corpo e voce agli altri “grandi assenti”, appiattendoli su degli stereotipi facili, caricature molto familiari, strategicamente atte a scatenare una facile risata.

VitoSimone Fraschetti, nel corso dello spettacolo, è tornato più volte a parlare con i suoi affetti, ogni volta li accendeva per poi spegnerli: all’inizio quest’impostazione registica è risultata curiosa, coinvolgente. Nel suo reiterarsi ha però perso la sua carica fascinatoria conferendo al pubblico la possibilità di prevedere con esattezza l’esito di ogni momento scenico. Nonostante il gran da fare dell’attore, inevitabilmente, il ritmo dell’azione è risultato monotono e la scena statica.

L’intuizione da cui nasce questo lavoro scenico è di indubbia validità forse sarebbe stata necessaria la fatica di un ulteriore percorso di ricerca per riuscire a condensare insieme tutti gli spunti proposti, senza mutilarne la natura e lo spessore.

 

Visto il 17/03/2017
Info:
testo e musiche di Luna T Sveva Testori
con Simone Fraschetti
regia Klaus Kurtz
foto Pamlanephoto
maschera di Fabrizio Pangallozzi

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