FEDRA@Teatro Romano di Ostia Antica: Amore è un dio?

Ad aprire la rassegna “Il mito e il sogno”, nella suggestiva cornice del Teatro romano di Ostia Antica, è stata lo scorso sabato la messa in scena della FEDRA di Seneca per la regia di Carlo Cerciello, già acclamata presso i teatri di Siracusa, Segesta e Taormina nell’ambito di un progetto promosso dal ministro per i Beni e le Attività Culturali Dario Franceschini al fine di rilanciare i teatri di pietra presenti in tutta Italia. Vedi il Programma completo della rassegna IL MITO E IL SOGNO, in scena al Parco archeologico di Ostia Antica .

Incantevole l’interpretazione di Imma Villa che, nei panni della donna impazzita per il furore amoroso, descrive non l’ascesa della sua passione, già al culmine all’inizio della vicenda, bensì  l’abbandono di qualsivoglia blocco dei propri impulsi liberatori, emergendo da una prigionia fatta di moralità e ritegno, simboleggiata fisicamente dalle ampie vesti costrittive e dai capelli rigidamente raccolti. A fine spettacolo è una Fedra piccola, ma che nel suo essere minuta condensa tutta la forza della libertà recuperata, della disciplina infranta, della propria tragedia coraggiosamente e totalmente portata a compimento. I lunghi capelli sciolti e la spada tenuta con forza la avvicinano per alcuni aspetti al mondo dell’amato Ippolito, lontano dai fasti della vita di corte, fatto di semplicità e condanna a qualsiasi forma di corruzione.

 

L’amore scellerato di Fedra, tanto nemico delle convenzioni sociali quanto forte e dilaniante, fa della donna uno dei personaggi più intensamente tragici della letteratura antica. Il tormento della passione vissuto in maniera viscerale e struggente la rende poeticamente umana. Persino la severa nutrice, interpretata da Bruna Rossi,  abbandona i toni severi di una sorta di badessa che reclama il rispetto delle regole morali per comprendere ed assecondare colei che ritiene essere il solo conforto dei suoi ultimi anni. Sicuramente l’affetto per la donna, ma anche una sopraggiunta cognizione del suo pathos, fanno sì che decida di farsi complice, messaggera lei stessa del condannato amore.

Dapprima la nutrice disapprova le intenzioni di Fedra e tenta di dissuaderla dal dichiararsi ad Ippolito, misogino figlio dell’amazzone Antiope, ricordando  con le sue parole le sciagure generate dalla passione nella sua famiglia e sottolineando come l’amore incestuoso sia anche peggiore di quello mostruoso: «Vuoi dunque mescolare il letto del padre con quello del figlio, concepire nel tuo grembo una prole empia, ibrida, confusa? Ma sì, continua, sconvolgi la natura con la tua nefanda passione! Dove sono finiti i mostri?». Nel suo duro discorso dichiara fermamente che «Amore non è un dio!», ma frutto della libidine e dell’incoscienza. Eppure davanti ai propositi di Fedra deve cambiare idea. Poiché solo la morte è l’alternativa a quel sentire colpevolizzato, tale sentire non può che essere amore e la sua affermazione unico esito della pur certa tragedia.

Il logos si dimostra incapace di contenere le passioni e di impedire la catastrofe.

Se in questa Fedra, così come è tipico del resto della versione di Seneca già dalla scelta del titolo, la donna è protagonista e sulla sua intimità fa perno lo snodarsi della vicenda, un forte risalto prende su di sé anche l’emozionalità di Teseo (con più carica rispetto ad Ippolito rappresentato dallo stesso Fausto Russo Alesi),  precipitoso nel punire suo figlio con una maledizione che lo rende allo stesso tempo giudice crudelissimo e vittima incosciente della sua scelta. Lo vediamo miseramente devastato davanti ai brandelli del corpo del giovane figlio. È sua la sconfitta in definitiva, poiché Fedra si responsabilizza e, svelando la menzogna, discolpando il figliastro ed uccidendosi, assurge infine alla dimensione di eroina, che nobilita la sua passione drammaticamente umana e la porta con sé (forse prima tra le donne del suo tempo in questo) al di là della vita.

Scongiurato il pericolo della pioggia, il pubblico di Ostia Antica assiste ad una messa in scena tanto elegante quanto schietta.
Le scelte registiche rivelano fedeltà alla parola del testo latino, ma arricchiscono contemporaneamente la trama di suggestioni simboliche raffinate. Dall’inizio la collocazione sui due diversi piani del proscenio e del palco pone il mondo boschivo e selvaggio di Ippolito su una dimensione totalmente aliena rispetto a quello della corte di Fedra. La fitta selva di alberi ricreata sullo sfondo della scena da Roberto Crea restituisce una certa continuità, ma non elimina la scissione, rimarcata piuttosto dai costumi dei personaggi (opera questi di Alessandro Ciammarughi) che, grazie alle forti contrapposizioni di colori, demarcano ancor più visibilmente la distanza tra il regno del sentimento di Fedra e quello selvaggio e primitivo di Ippolito.

Il coro, ben rappresentato dagli attori dell’Accademia d’Arte del Dramma Antico “Giusto Monaco”, è parte della figuratività allegorica della messa in scena. Lo stesso regista afferma che la sua funzione «sulla scia delle contraddizioni caratterizzanti l’intera opera, è in parte drammatica e in parte lirica, in parte personaggio in parte astratta, assecondando la tendenza senecana alla meditazione filosofica ed etica». E di quella componente speculativa immateriale è esempio toccante e seducente il forsennato balletto a rappresentazione di Amore, nel mezzo della vicenda. Le coreografie di Dario La Ferla e le musiche di Paolo Coletta sembrano interrompere per un attimo la barriera di incomunicabilità tra le esistenze antitetiche di Fedra ed Ippolito, trovando nella forza della passione uno spiraglio di possibilità.

L’impatto di questa Fedra sullo spettatore è forte. Il furor descritto da Seneca, quella follia che fa gridare alla donna «io non voglio ciò che voglio!», appare tanto più moderno ed universalmente valido quanto più riconducibile alla nostra umana ineliminabile fragilità.

 

 

Prossimamente nella rassegna IL MITO E IL SOGNO

Martedì 13 settembre – Maestro Uto Ughi, con i suoi Filarmonici di Roma (già Orchestra da Camera di Santa Cecilia)
il Preludio ed Allegro in stile di Gaetano Pugnani del grande virtuoso viennese Fritz Kreisler, brani di Rossini, Paganini, De Sarasate e Beethoven.

Venerdì 16 settembre – "Caruso e altre storie italiane" del coreografo italo­africano Mvula Sungani. Omaggio ad Enrico Caruso e Lucio Dalla. 

Sabato 17 settembre, grande chiusura con i Pink Floyd Legend che riproporranno fedelmente il capolavoro “Live at Pompeii”.

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