In scena fino al 9 ottobre al Teatro Quirino, FEDRA, prima regia di Elena Sofia Ricci, con in scena Valentina Banci nella Tragedia di Seneca. La regista colloca con arguzia la storia in una moderna discarica: è una delle Tragedie greche più intense e sanguinolente della storia del Teatro in cui Seneca instilla lentamente nei suoi personaggi quel seme bestiale e folle che è anche dell’umano.
Una buona rappresentazione con un linguaggio più immediato ma non scevro della matrice classica, privo forse solo del crescendo. Quell’acme drammatica, che è insita nella tragedia greca, qui è in parte mancata.
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Al Teatro Quirino in scena Fedra, prima regia di Elena Sofia Ricci
L’aria che si è respirata il 4 ottobre è quella dei grandi eventi. Il Teatro diviene la Casa del buon amico e tutti sono ospiti attesi e pronti a festeggiare. Il ricco parterre scambia saluti, occhiate curiose. I fotografi rubano scatti che poi useranno per i servizi giornalistici.
Nel foyer incontro tanti amici: Mariano Rigillo, Cicci Rossini (coppia sul palco e nella vita). Paila Pavese, Valeria Fabrizi, Silvia Siravo. Francesca Benedetti, Jessica Loddo, Alessandro D’Ambrosi e la lista si potrebbe allungare parecchio. Tutti lì, assiepati elegantemente, per assistere alla Prima di Fedra per la regia (anche questa una prima) di Elena Sofia Ricci.

Il Caos dietro il sipario nella fedra di Elena Sofia Ricci
Elena Sofia Ricci è attrice di razza e di lunga carriera. Mi piace. Qui esordisce come regista e lo fa coraggiosamente con una delle Tragedie greche più intense e sanguinolente della storia del Teatro. Seneca instilla lentamente nei suoi personaggi quel seme bestiale e folle che è anche dell’umano. Dunque da subito, a sipario chiuso, come se la pièce volesse conquistare ogni spazio e senza rimandi, si odono echi che terrificano. Inquietano ancora quando nulla è accaduto. Quel suono distorto e strappato è già preludio di sciagura. Si umilia il desiderio di speranza nei personaggi e negli spettatori. Dopo, a scena aperta, fasci di luce pendono su liquami di vita. Quei mucchi di stracci invadono ogni antro del palco e sono brandelli di vita sparsi come rifugi. Giungono latrati animaleschi di uomini non uomini. Sono scarti di esistenza.
Fedra in discarica: le suggestioni di Elena Sofia Ricci
La Ricci colloca con arguzia la storia in una moderna discarica, forse uno sfasciacarrozze o una città bombardata: non è chiaro o chiarificato. Ci sono rifiuti di cancelli. Tricicli soffocati dall’adulto che uccide tutto, persino il fanciullo che gli viveva dentro. In un altro tempo. Altri stracci sfibrati sono abbarbicati sopra quelle misere esistenze. C’è una macchina rotta che ha ingoiata una colonna spezzata. Ogni cosa divora ed è divorata. Sembra non esserci salvezza. Non è esplicito il luogo esatto. La città è Atene. Ci sembra la rappresentazione visionaria del “Caos”.
VALENTINA Banci è Fedra
Valentina Banci è l’indomita Fedra. Da subito è potente: denuncia la sua rovente passione carnale che diviene dolore lacerante. Nessun rimando. Nel suo tormento sono intrappolati i grovigli familiari. Qualcosa di empio avvolge Fedra e gli altri personaggi in un crudele giogo. Fedra è scrigno del nefando amore che invece lei grida senza pudore in faccia agli ateniesi. La nutrice, Francesca Mazza (misurata e abile attrice), non riesce a dissuaderla da quell’ amore passionale e travolgente per Ippolito figlio di Teseo, sposo di Fedra.
L’intrigo mescola affetti come i flutti del mare che s’infrangono su scogli aguzzi. Sono acque calde ma che gelano il sangue di tutti. Le ancelle sono attonite. Emergono dai loro torbidi nascondigli di stracci per assistere impotenti alla tragedia che si consuma davanti ai loro occhi. Sguardi sgranati. Pupille dilatate dall’incredulità. La nutrice ci dice che nelle famiglie modeste vige un amore onesto, semplice. Tra i ricchi predomina la bramosia per il potere e la ricerca dell’impossibile. Di ciò che va oltre certi limiti umani e universali. Sembra, anzi è, una critica sociale rivolta da Seneca alle classi più abbienti.
Fedra di Seneca: quando il teatro greco fa politica
Il Teatro greco sentiva il dovere di fare politica. Seneca dà spunti anche antropologici che gli studiosi hanno sicuramente considerato. Naturalmente credo si tratti anche di provocazioni e questioni estreme che il filosofo e drammaturgo mette in scena. Questioni acuite dalla sua fede stoica che tende a raccontare e persino dimostrare la robustezza d’animo esemplare quando si trova innanzi alla morte e alle sventure che ci riserva in taluni casi la vita. L’affondo politico verso la genia o forsanche i politici dell’epoca si replica quando ancora per bocca della nutrice si dirà che la reputazione non è interessata al vero: la buona colpisce i cattivi e la pessima colpisce i buoni. Fedra sembra insensibile anche alla mostruosa conseguenza di una prole confusa dove i figli avrebbero una madre che è stata sposa del nonno… La scintilla ancestrale in Fedra è perduta e spenta, perché rapita da una passione animale.
in fedra un Seneca Misogino
Il Teatro ha un immenso potere, prima più di oggi. Era la prima e l’autentica forma di intrattenimento e il mezzo migliore per veicolare messaggi. Seneca forse e Ippolito certamente sono misogini. L’odio di Ippolito trasuda da ogni poro per Fedra e per le donne tutte. È addirittura sollevato dalla morte della madre perché adesso potrà odiarle tutte le donne senza esclusione. Nei nervi di Gabriele Anagni (un buon Ippolito), il pensiero misogino arriva forte e nitido sino alla silenziosa platea.
«La donna è la rovina di tutto» griderà di collera. Ippolito sta per conficcarle un pugnale affilato quando d’improvviso decide di condannarla alla pena peggiore, insopportabile: la vita. Quella vita che contiene come uno scrigno putrido la morte stessa che Fedra adesso brama perché sa che non potrà avere Ippolito. Fedra si contorce. Muore senza morire. Si dilania e perde conoscenza. La realtà non le appartiene più. Non ha più quell’incarnato delle labbra che sosteneva la sua bellezza. È ancora un fiore ma sta appassendo. La bellezza è effimera lo sanno gli ateniesi e in lei è adesso svanita. Fedra si è consumata. È una bestia zuppa delle sue stesse lacrime che brancola nel bosco.

Il ritorno di Teseo (Sergio Basile) alla ricerca di Fedra
Brandelli di vita vengono strappati ancora e colano inferociti dal cielo. Dall’alto come pioggia di stoffe logore. Da ogni dove. Teseo torna vivo. Ha ancora un pallore di morte che avrei voluto vedere meglio. È ben pettinato: dettaglio certamente trascurabile ma che mi distoglie dall’immagine di chi proviene dalle inospitali contee della morte. Mi piace, in compenso, molto il costume fatto di un vestito elegante squarciato da quel non luogo di morte. Mi piace il passo grave di Sergio Basile (preciso nel suo personaggio) che pare staccarsi con fatica dal suolo. Sembra che il personaggio e attore, emergano da insidiose sabbie mobili che lo vomitano di nuovo e nello spesso luogo dove l’avevano assorbito. È come se fosse, in quel mentre, ambasciatore della natura: tornato per pareggiare i conti e che si ottemperi a certe regole ancestrali violate. Anche per il canuto sposo: la vita diviene condanna atroce. L’esistenza è insopportabile e annichilita per mano dell’essere umano. È lui l’autore dell’indicibile delitto che ha se stesso come carnefice. Teseo emerge dunque e chiede alla sua sposa di venirle incontro con amore. L’accoglienza non c’è. Gli occhi di Fedra sono inondate di lacrime. È un fiume di dolore che annienta la donna e la spinge in quel freddo giaciglio: un materasso. Un rifiuto. Tutto precipita quando lo sposo scopre la verità: la collera di Teseo si scaglia contro il figlio. Teseo invoca Poseidone (suo padre) per procurare una morte terribile al figlio.
La regista immobilizza Anagni durante tutto il racconto dell’atroce morte del figlio, affidata alla brava Ilaria Genatiempo. Non un ciglio e muscolo si muovono sul volto del padre, eppure ogni brandello di Ippolito è sparso. Ricomporre il corpo è impossibile così come l’amore di quella famiglia. Quel ceppo di consanguinei sembra avvelenato. Quel corpo straziato spegne le stelle della bellezza di Ippolito. “L’onesto Ippolito”, così come svelerà la stessa Fedra, che si ucciderà poco dopo. Di quel sangue hanno tutti le mani sporche come simbolicamente la regista ci dirà dato che Fedra imbratterà il padre attonito. Teseo adesso piangerà il figlio non perché l’la ucciso ma perché l’ha perduto. Teseo adesso vuole morire. La morte sembra il sollievo unico e inevitabile per chi è avvinghiato in quel turpe vortice. Il padre affranto chiede a Ercole di richiamarlo alla dimora dei morti dove cerca requie. Adesso il suo volto è pietra. Il suo cuore è pietra. Teseo sprofonda negli inferi come unica condizione desiderabile ma prima cercherà tutto il fiato che possiede per ordinare che il corpo di Fedra venga scaraventato in un fosso.
Le musiche, le luci evocano una Fedra disturbante
Ho già e da subito scritto che le musiche di Stefano Mainetti sono evocative. Giuste. Disturbarti come devono essere quando accompagnano una tragedia greca come Fedra. Spesso intonate a sincrono alle luci di Stefano Limone, che squarciano la scena in più parti: la tagliano e con essa i personaggi atterriti da quella condanna divina o naturale che si sarebbe certamente abbattuta da lì a poco. Dei e natura sono certamente d’accordo sul fatto che l’uomo è capace di mostruosità come l’incesto.
fedra: i Costumi e la scena di andrea taddei
I costumi e le scene di Andrea Taddei mi hanno restituito da subito l’idea del Caos. Del disordine che appartiene all’uomo. C’è la necessità e urgenza di vivere che induce Fedra a cavare mostruose pulsioni dalle sue umane viscere. Ci sono drappi ovunque. Ci sono abiti consunti che coprono miseri corpi. Come ho già detto: non è solo uno sfasciacarrozze (come ci dice la Ricci nelle sue note di regia), ma quella tormenta di vita mi piace. Mi piace molto.
fedra: un giudizio sulla regia di elena sofia ricci
Pièce godibile. L’esordio alla regia teatrale di un’attrice come Elena Sofia Ricci, ci sembra riuscito. Con la richiesta allo scenografo di un luogo moderno, ha voluto senza indugi dire subito alla folta platea che le tragedie greche sono tristemente attuali, dunque moderne.
Nella nota, che per mia scelta, leggo solo alla fine della critica, la Ricci dice quello che arriva nitido come messaggio:
“l’uomo non cambia”. «Temo che non sia stato Seneca a essere incredibilmente avanti, ma sono gli uomini a essere tragicamente indietro».
Fedra mi sembra per questo il “Compendio dell’involuzione” o meglio della non evoluzione. L’uomo rimane immobile, non cresce. Non migliora. Non fa tesoro dei suoi difetti e delitti, e replica i suoi errori come si replica una brutta commedia nei piccoli teatri di parrocchia.
A scanso di equivoci: questa è una buona rappresentazione. La Ricci, grazie anche alla buona traduzione di Alfonso Traina, ha regalato al pubblico un linguaggio più immediato per quanto non del tutto scevro della matrice classica. La questione trascurata, che invece ho trovato in altre rappresentazioni più mature nella regia, è quel crescendo che è insito nella tragedia greca. L’acme al quale Seneca e altri greci ci hanno abituato, qui è mancato.
Spettacolo da vedere.
FEDRA di Seneca – INFO, CONTATTI
4.9 ottobre
Fondazione Teatro della Toscana – Best Live
presentano
VALENTINA BANCI
SERGIO BASILE
FRANCESCA MAZZA
GABRIELE ANAGNI
ILARIA GENATIEMPO
QUIRINO CONTEMPORANEO
con
ELISABETTA AROSIO ALBERTO PENNA VALENTINA MARTONE
AURORA CIMINO DAFNE RUBINI
traduzione Alfonso Traina
scene e costumi Andrea Taddei
musiche Stefano Mainetti
ligth designer Stefano Limone
regia ELENA SOFIA RICCI