FANGO ROSSO, in scena al Teatro Comunale dell’Antella, all’interno della rassegna di teatro di narrazione SEINCONTRI.SEI iniziato con SOTTOPELLE, è il racconto di una storia semplice, i cui protagonisti abitano lo scenario devastato dalla guerra con tutto il peso anonimo della loro quotidianità, antieroi costretti a scegliere da che parte stare davanti all’ingiustizia, posti al bivio tra l’obbedienza o la ribellione, attori ignari di un evento collettivo di emancipazione.
Livorno 1943, la città distrutta dalle bombe di una guerra che sembra volgere alla fine, il duce è caduto, il fascismo ancora chissà. Le quattro del pomeriggio in coda dal tabaccaio, la fila per le sigarette, le chiacchiere, i pettegolezzi, le notizie sugli sfollati, la normalità quotidiana sullo sfondo di un quotidiano sconvolto dalla dittatura, dalle macerie, dalla fame. Entra un fascista, Sirio Lami, dai modi brutali, la voce alta, gli occhi sempre in movimento, il passo secco dello stivale. Passa davanti a tutti, col divertimento gratuito di chi è abituato a intimidire il prossimo, magari interrogandolo così per gioco; da anni una regola sicura nei rapporti con gli altri: sguardo basso e tremolio, perché se tremano si ride e se sudano si spara. Nessuno si azzarda a fiatare davanti alla sua camicia nera. Michele Pacini non tollera l’ennesima sopraffazione e si lascia scappare un commento a denti stretti, sotto gli occhi atterriti della moglie. L’atmosfera si fa tesa come il filo di un coltello: Il fascista e l’antifascista ad un passo l’uno dall’altro, un fucile puntato, nessuno interviene. No, uno sì, un poliziotto in congedo, Edmondo Buontempelli con la pacatezza dell’uomo libero che non teme i prepotenti. Si mette nel mezzo, tiene testa al Lami, si becca una pallottola in pancia al posto del Pacini e muore. Un giorno di ordinaria violenza che segna le coscienze di chi osserva e non riesce ad opporsi all’arroganza di un potere marcio, come quelle di chi trova il coraggio di non piegare il capo, perché da tanto ha sopportato i soprusi e ora no, davvero non vuole più. La storia attraversa il tempo, ci porta avanti negli anni, alla fine della guerra, al ritorno della leggerezza, ma non per tutti, non per chi in guerra ha perso i propri affetti, come la moglie e la figlia del Buontempelli, non per il Lami, processato per l’omicidio di Oberdan Chiesa, non per il Pacini vivo grazie al sacrificio di un altro. La pace interiore torna solo con un’ultima occasione di restituire il favore ricevuto. Saputo del processo Lami in corso, Pacini lo denuncia anche per quel delitto impunito e dimenticato dalla storia, restituendo dignità alla famiglia che, inutilmente chiedeva giustizia.
Da questa storia semplice e realmente accaduta, riesumata dagli archivi storici grazie al lavoro di Alessia Cespuglio e Pietro Contorno, emerge la genesi dell’antifascismo della gente comune, lontana dalle passioni ideologiche, in passato intorpidita dai fasti tronfi di un regime a cui in buona parte aveva creduto, ma resa capace di discernere dalla sofferenza della guerra. I tratti popolari e schietti dei personaggi evocati dal racconto riducono all’essenza più nuda la sostanza del l’opposizione ad ogni regime: il rifiuto, in nome della forza condivisa del diritto, contro l’abuso di potere, l’affermazione arrogante e violenta di un uomo sui suoi simili.
La scena è totalmente vuota, solo una sedia al centro, occupata dalla narratrice, in abiti semplici, pantaloni chiari e una camicia bianca. Nessun trucco o enfasi attoriale, anzi, un tono di voce dimesso, inizialmente incerto per l’emozione e una sorta di schiva difesa davanti agli occhi incuriositi del pubblico, poi via via sempre più fluido, trascinato dall’atmosfera evocata, che, grazie all’uso del dialetto e della sua popolare vitalità suscita, davanti ai nostri occhi un mondo vivace e chiassoso, in cui le voci dei diversi personaggi diventano folla di volti, gesti, occhiate furtive, panoramiche di un passato ancora vivo nella memoria, come foto d’epoca parlanti. La narrazione è scarna, snella, una cronaca serrata, senza eccessi retorici, asciutta e proprio per questo estremamente commovente per la densità umana ed emotiva delle vicende che ci sembra di recuperare dai ricordi di famiglia, quelli che il nonno o la nonna ci hanno trasmesso, di quando c’era la guerra, di quando si poteva morire per un sì o per no.
E l’efficacia di questo viaggio nel tempo la si assaggia anche osservando il volto degli spettatori, annuiscono come se ascoltassero una storia già nota, una storia di tutti. C’è un clima di famiglia tra il gruppo raccolto di spettatori e gli organizzatori dell’evento, membri del Collettivo teatrale Informale, attori-narratori , “un gruppo di gente dalla testa dura a cui piace stare insieme anche se non si somiglia per niente” come di definiscono, che invita al dibattito dopo l’ultimo applauso: si parla così, in maniera informale ma densa, di antifascismo e di memoria, di conservazione di valori, dell’amarezza allarmata con cui si osserva la società civile abbassare la soglia di protezione verso idee, atteggiamenti, nostalgie di ritorno. Interviene anche Luigi Remaschi, il presidente di ANPI Firenze, invitato alla rappresentazione, che ricorda come ognuno di noi sia, in fondo, chiamato ad una testimonianza attiva verso quelle generazioni che potrebbe non ascoltare più storie come questa, perché chi le ha custodite è ormai morto. Proprio in questa operazione autentica di trasmissione di una memoria collettiva sta tutto il valore di questo intenso spettacolo di narrazione: passare il testimone, continuare a raccontare con semplicità la storia da cui proveniamo, per continuare ad imparare gli uni dagli altri, il valore del rispetto, della pace e della convivenza civile: il valore dei diritti acquisiti col sangue di chi ci ha preceduto.
Info:
FANGO ROSSO
di e con Alessia Cespuglio
collaborazione alla drammaturgia di Francesco Niccolini
ricerca storica Pietro Contorno
Teatro Comunale di Antella, Firenze
3 maggio 2018