ELVIRA – in scena fino al 18 dicembre 2016 (apre la stagione del Piccolo Teatro Grassi di Milano) – è un piccolo, immenso cammeo di Teatro: nel breve arco di 75 minuti fa percepire, meglio di un saggio, cosa significhi fisicamente, intellettualmente e umanamente fare Teatro, arte in cui sguardi e silenzi valgono come la parola e il gesto e in cui (come in ogni attività umana) nulla può e deve essere lasciato all’improvvisazione.
Assistendo a una pièce seduti in una comoda poltrona, raramente si pensa al lavoro e all’impegno di chi quel testo porta sul palcoscenico come regista o attore e troppo spesso non si rispetta la loro fatica e concentrazione chiacchierando, commentando o – caso purtroppo molto frequente – consultando il telefonino.
Con ELVIRA lo spettatore vive quel momento sublime di creatività rappresentato dalle prove: attimi magici in cui i personaggi passando dal copione al palcoscenico prendono quella vita che li farà entrare nella mente e nel cuore del pubblico a volte in modo indelebile.
L’azione si sviluppa tra il 14 febbraio e il 21 settembre 1940 a Parigi nel Théâtre de l’Athénée dove Louis Jouvet (1887-1951, pietra miliare del Teatro e del Cinema francesi e non solo) sta preparando la seconda scena del quarto atto del Don Giovanni di Molière insieme a tre giovani attori Octave, Leon e Claudia nel ruolo di Elvira, una delle ‘vittime’ di Don Giovanni.
Il testo di Brigitte Jaques (Elvire Jouvet 40 il titolo originale) racconta le sette lezioni con cui Jouvet trasformò la giovane attrice Claudia in Elvira spiegando per successive approssimazioni come l’attore debba non interpretare un ruolo restando se stesso, ma viverlo annullando la propria personalità in quella del personaggio: solo così riuscirà a trasmetterne i sentimenti.
La pièce è un gioco sottile di sfumature che differenziano le stesse battute ripetute per sette volte: l’abilità di Toni Servillo-Jouvet e Petra Valentini-Claudia è realizzare con le stesse note una sinfonia talmente articolata da far dimenticare la ripetitività di parole divenute solo uno strumento con cui rendere percepibili atmosfere e stati d’animo diversi.
Toni Servillo regala un’interpretazione eccezionale per misura e semplicità in cui accanto all’ansia di far emergere al massimo le qualità di un’allieva dotata fa percepire quella (propria di ogni grande artista) di scandagliare i personaggi andando oltre le stratificazioni accumulate dal tempo e dai luoghi comuni. L’Elvira che in ogni lezione è trasmessa a Claudia acquista nuove sfaccettature di profonda umanità e il messaggio-avviso che porta a Don Giovanni se inizialmente sembra dominato dall’inconscia voglia di vendicarsi del male ricevuto con il bene, nella lettura di Jouvet diviene progressivamente un’espressione di pietas e infine di misericordia nella sua accezione più cristianamente profonda.
Lo stesso Don Giovanni è umanamente diverso dallo sconsiderato seduttore trasmessoci dalla tradizione: le parole di Jouvet-Servillo illuminano il protagonista del capolavoro molieriano di una luce originale che rende visibile e palpabile il dramma profondo di un uomo votato all’infelicità e alla sostanziale solitudine anche fisica.
Bravissima anche Petra Valentini nel difficilissimo ruolo di Claudia di cui ha trasmesso senza sbavature o incertezze palesi sia l’iniziale sicurezza, quasi presunzione, di conoscere la parte perché ne aveva studiato parole e gesti, sia la progressiva presa di coscienza della propria ignoranza di quanto c’era oltre le parole e i gesti, fino al dubbio – proprio di chi sa – di non essere in grado di trasmettere l’anima di Elvira.
La pièce peraltro non è solo il racconto di queste sette fondamentali lezioni, ma indica il Teatro come rifugio dell’anima e dell’intelligenza dalle brutture e dalle perversità: mentre nel Théâtre de l’Athénée si celebrava la cultura, oltre le sue mura il nazismo portava la sua barbarie nelle strade di Parigi, come sottolinea la regia di Servillo facendo percepire gli echi (lontani come se provenissero da un altro pianeta) dei rumori della guerra (Jouvet dovrà da lì a poco abbandonare la Francia occupata e il Don Giovanni sarà da lui portato in tournée in Sud America).
Una grande regia quella di Servillo così come quella di Giorgio Strehler che nel 1986 con questo testo ha inaugurato il Teatro Studio: entrambe rispecchiano la personalità dell’autore e come per tutte le opere d’arte è illogico fare confronti.
Il Piccolo completa la conoscenza della figura e dell’opera di Jouvet con una rassegna cinematografica realizzata con l’Anteo SpazioCinema e articolata dal critico Maurizio Porro su sei film che mostrano “come per un grande attore non esistano piccole parti”. Opere che portano la firma di registi che hanno fatto la storia del cinema francese e non solo: da Jean Renoir a Marcel Carné per citare due astri che illuminano tuttora il firmamento cinematografico (e che tanti registi di oggi farebbero bene a studiare).