ECLOGA XI @Anagoor: la nuova catarsi del teatro di poesia

Una nuova prova dell’estetica personalissima e della ricerca di Anagoor, che si confrontano col pastiche lunare e raffinatissimo di Andrea Zanzotto, e all’indietro con Virgilio, D’Annunzio, Pasolini, e con quanto il dolore dell’arte possa illuminare quello del mondo. Visto in video inoltrato per gentile concessione di Simone Derai (successivamente alla replica del 2 Dicembre 2022 al Teatro Astra, Vicenza) .

Ecloga XI: l’incrocio dei testi

ECLOGA XI di Anagoor è un “omaggio presuntuoso” alla grande ombra di Andrea Zanzotto, esattamente come le IX  Ecloghe di Zanzotto sono state omaggio al fondatore,  il luminoso Virgilio e le sue dieci composizioni. Due personaggi, una donna (Leda Kreider) e un uomo (Marco Menegoni) dialogano indagando la grande tela della Tempesta di Giorgione, epurata dalle figure umane. Danno le spalle al pubblico, almeno parzialmente, come il celebrante alla congregazione o chiunque di noi allo specchio. Percorrono la tela – specchio e finestra, con l’ausilio della luce di tubi al neon. Più avanti la sfregeranno, pennellandola di nero. Più avanti si spoglieranno, regredendo al biancore di moderni Adamo ed Eva, uno dei due, Adamo, si sdraierà davanti alla tela, si immergerà un paesaggio verde acido, alieno, continuando a recitare in sussulti annodati i versi irregolari, sincopati e saltellanti del poeta di Pieve di Soligo. E mentre questi gesti simbolici si attuano, lo spettacolo crea una rete di parole. Si apre con il celebre Recitativo Veneziano di Zanzotto, gettato con energia barocca e fatto rotolare e tuonare dalla resa da brivido di Luca Altavilla, evocando una Venezia monstre, divinamente dionisiaca nei suoi appetiti e nella distorsione dei suoi mille nomi (Venezia Venusia Venoca). Prosegue con Meteo, la rievocazione del “ricchissimo nihil”, il verde misterioso che evoca, sì, la natura, ma è creazione umana, privo dunque di autenticità, di leggerezza, un verde che si presta infinitamente ad accogliere la reiterazione di un titolo – chiave, Fuisse. Tutto sembra essere stato, tutto sembra decadere. La natura si contrae e si impoverisce se l’uomo la sfiora. L’arte non riesce a guarire se non con la morte dell’artista. Siamo adeguati alla nostra epoca, come dichiara di sentirsi Leda Kreider, proprio questa, ferita dalla pandemia, dalla decadenza, dalla politica miserabile, dai cambiamenti climatici, da mille presagi di fine, dal sentirsi vittime di tutti noi mentre le vere vittime muoiono dimenticate. Conteniamo i germi della nostra malattia, conteniamo mille pandemie. Lo suggerisce la citazione di “1944: FAIER”, una delle prose di Zanzotto riferita agli orrori della Seconda Guerra Mondiale, che verranno esemplificati all’apice dalla lettera di Gunther Anders a Claude Eatherly, pilota il cui destino, di scegliere che il bersaglio coperto dalle nubi che si presentava fosse effettivamente Hiroshima, obiettivo su cui l’atomica avrebbe dovuto essere lanciata, lo rende una figura infinitamente tragica, sottoposta alla scelta pesante di ogni eroe che debba “chiudersi al collo il giogo della Necessità”.

ECLOGA XI: Leda Kreider e Marco Menegoni (ph. Giulio Favotto)

Ecloga XI, il “canone sospeso”

Sintetizzare così lo spettacolo è improduttivo, e inutile. Le ragioni di una performance come questa sono ben altre, una oltranza che si gemella rapidamente in oltraggio, un ducere che rischia di perdere il senso della meta e di diventare rischioso, mentre fermarci e riflettere, cambiare solo una vocale, docere,  ci consiglierebbe al meglio. La performance affonda le sue radici in un senso di canto, unica vera entità innegabile. La poesia usa la parola al suo massimo grado, è forse l’unica creazione umana non contagiata dal male. Poesia orale, declamata e proposta, resa sacra e rituale dall’alto stile nudamente naturale e infinitamente sacro con cui i due interpreti ce la offrono. I messaggi sono leggibili anche nella loro ondeggiante alternanza, nel loro presentarsi offrirsi e fuggire, ma la chiave della performance non è neppure questa, se non fosse che proprio le parole creano un mondo di pura suggestione, un mondo allusivo, di senso ambiguo, bello di indefinibile bellezza, un’opera simbolo che potremmo definire, con Barthes, “a canone sospeso”. Questo tipo di arte che oscilla con la stessa rapida imprevedibilità con cui le foglie di ulivo svariano dal verde al grigio (d’Annunzio, “la tua parola cambia di colore/ come l’ulivo fa quando c’è vento”) è tesa a non fare senso, ma a sospenderlo, a renderlo impalpabile, sfumato, infinito. Un senso sospeso, che apre un albero di sottosensi, una complessità comparabile solo a quella del mito.

ECLOGA XI – Teaser

Il potere lenitivo del dolore dell’arte

ECLOGA XI: Marco Menegoni (ph. A. Macchia )

Un albero di senso. Del resto, mille apporti compongono il fascino di questo incrocio. Zanzotto risulta a tutte le voci critiche un formidabile raccoglitore e incrociatore della tradizione lirica: Leopardi, Virgilio, d’Annunzio e mille altre voci compongono la specificità di incredibile pastiche del suo ineguagliabile stile. “A lui tutto serve, le parole rare e quelle dell’uso e del disuso, l’intarsio della citazione erudita e il perpetuo ribollimento del calderone delle streghe”, scrisse Montale. Solcandolo, Anagoor arriva finalmente al dialetto, fino ad adesso intoccato nelle mille lingue impiegate nel loro teatro: esotiche, rare, settoriali, ora finalmente vicine alle radici geografiche del luogo d’origine. Zanzotto attiva questo corto circuito nel lavoro del gruppo, a cui lo destinavano già consonanze evidenti, l’attenzione ecologica ad esempio, ma anche la concezione, bellissima, di una ‘storia’ non giornalistica, ma anzi solcata da mappe, tracce, fantasmi, leggende, che affiorano e scompaiono, ma che il paesaggio può evocare. Solo il paesaggio, la Tempesta in questo caso, può restituirci a noi stessi, scrivere le nostre tracce sul terreno, ancorare i nostri pensieri, i nostri ricordi. E l’arte li renderà vivi, annullerà il “progresso scorsoio” che adesso ci fa agonizzare: magari il dolore dell’arte stempererà il nostro dolore.

ECLOGA XI

Ecloga XI , una catarsi diversa    

Anagoor accoglie nel suo lavoro l’immenso pastiche di Zanzotto e lo alimenta ancora, secondo lo stile del gruppo, quella divina, infinita connessione di un testo all’altro, quell’arte allusiva infinita per cui un tema, o una parola, diventa fragile ponte verso un altro testo, un altro autore, e tutto si tiene per archi inauditi che, una volta individuati, evocano stupore: come non li avevamo intuiti prima? E se da Zanzotto a Virgilio a Celan a d’Annunzio riusciamo a intravedere sentieri, sicuramente anche Pasolini sostiene l’operazione, non citato, naturalmente, ma sotterraneo: un teatro in forma di poesia. Un teatro per lettori di poesia. Un teatro lontano dalla chiacchiera e dal grido, un teatro che, come la tragedia attica, chiede ai propri spettatori impegno, sofferenza, riflessione. Non è detto che la catarsi sia solo istintiva. Non è detto che non esista una catarsi che scava nel logos, che fornisce un ritratto crudele di noi, un ritratto forse per assenza, come avviene nella Tempesta depurata da presenze umane. Quando gli umani entrano nel mondo verde, non sarà quello di Giorgione, ma una serie di pannelli calati dall’alto sui quali l’artista palermitano Francesco de Grandi ha dipinto alberi e cespugli di un verde iperrealistico, perturbante. Non possiamo rientrare in paradiso. Ed è nostro dovere rendercene conto, come per gli ateniesi contemporanei di Eschilo fu doveroso veder balzare in scena le loro paure sotto le maschere delle Erinni. Bellezza e terrore. La nuova catarsi insegna a tremare.  

ECLOGA XI (Luciano Rossetti ph.)

Ecloga XI e la lampada sulla spalla

L’arte è una catena, una traditio lampadis. Nell’ultima sequenza Eva riceve da Adamo un bimbo in fasce. Lo culla, lo coccola, utilizzando il petél, la poesia inventariale, estremamente ammaliante, che Zanzotto attribuiva al gergo con cui si blandiscono gli infanti. Visivamente, l’immagine richiama con forza la donna che, nel capolavoro di Giorgione, culla appunto un neonato mentre il cielo si incupisce. Ma l’arte allusiva non ha mai fine, si stende sempre all’indietro. Virgilio e il bimbo delle Bucoliche, il bimbo a cui “risere parentes”, che per la benedizione di questa tenerezza potrà essere invitato al banchetto degli dei o onorato dall’abbraccio di una di loro. In questo si riassume l’influenza di Zanzotto su Anagoor, più che in mille altri innegabili spunti: la collana di perle della cultura, della poesia: il dovere etico di dire il reale, certo, ma anche di creare una luce, la lampada portata dietro la spalla, per indicare la via non a noi, ma a chi ci segue lungo i meandri di una strada in salita che è l’unica che possiamo percorrere, anche se il mondo si impoverisce sempre più, anche se le nuvole si addensano.       

ECLOGA XI . UN OMAGGIO PRESUNTUOSO ALLA GRANDE OMBRA DI ANDREA ZANZOTTO

 Anagoor

Testi di Andrea Zanzotto

Con Leda Kreider e Marco Menegoni

Musiche e sound design Mauro Martinuz

Drammaturgia Simone Derai, Lisa Gasparotto

Regia, scene, luci Simone Derai

Voce del Recitativo Veneziano Luca Altavilla

La scena ospita un’evocazione dell’opera Wood 12 A Z per gentile concessione di Francesco De Grandi

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