Documentario THEATRON: l'inesauribile magma drammaturgico di Romeo Castellucci

Andato in onda su Rai5 e disponibile su RaiPlay, Theatron, documentario del 2018 di Giulio Boato e prodotto da La Compagnie des Indes, fornisce un excursus sull’opera e sulla drammaturgia di Romeo Castellucci, il regista romagnolo protagonista del panorama culturale internazionale a partire dagli anni ’80 al momento della fondazione della Societas Raffaello Sanzio insieme alla sorella Claudia e a Chiara e Paolo Guidi.  Da allora e ancora oggi, dopo il distacco dalla Societas, Romeo Castellucci non smette di sorprendere e di sconvolgere, più o meno inaspettatamente, le platee dei più blasonati festival del mondo.

INTRODUZIONE

Un teatro fatto di corpo e di materia, dove la rappresentazione è più pura laddove c’è più inconsapevolezza e la realtà, quella costruita sul principio di causalità, viene solamente evocata. Il documentario di Giulio Boato trasporta lo spettatore in una dimensione onirica capace di farci ripiombare nella concretezza di una tridimensionalità che non è mero abbattimento della quarta parete ma intrusione in quell’Ego che per sua definizione è ciò che di più lontano dalla realtà possiamo immaginare.

Sebbene la dimensione inconscia di freudiana definizione giunga a secoli e secoli di distanza, Castellucci trova innanzitutto nella drammaturgia classica l’origine dell’investigazione di quegli istinti che nel mondo contemporaneo, dove la vista vince sugli altri sensi, l’uomo non è più in grado di rappresentare con corpo e parola. Solo rivolgendosi allo zero, all’origine della semiretta del tempo della nostra esistenza, che è infante seduto sul palcoscenico oppure bestia, sia essa reale o evocata, lo spazio scenico diventa Théatron, luogo della visione, al contempo nirvanica e materica.

LA BESTIA TRA MITO E REALTA’

Nel documentario di Boato tale traccia interpretativa è talvolta sottintesa ma diventa necessaria e costitutiva del lavoro di Castellucci dove gli animali popolano spesso la scena: lo scimpanzé coperto dal drappo bianco, il toro miceneo dei nostri sogni, i malinois – fiere dantesche che aggrediscono il regista performer in Inferno. L’uomo ha una terribile tentazione metamorfica verso l’animale, in Castellucci e in altri grandi della performance contemporanea, primo fra tutti Fabre: l’ossessione in animale è un bisogno violento, una liberazione degli istinti profondi, e insieme culturale, perché sarebbe possibile leggere tutta la Tragedia Endogonidia come emanazione del corpo del capro, la cui effigie, del resto, campeggia in Orestea, lugubre e magnifica, come un Agamennone in elmo emerso dalla tomba e che gli elettrodi pulsanti restituiscono alla vita, al rantolo e al respiro. L’animale è espressivo senza parole, entra in scena ma non la assume, proprio come l’attore, che dovrebbe arrivare ad una animale ignoranza della morte e della lingua padroneggiando il mistero e la divinità. Quando nella scena d’apertura di Inferno Castellucci osa fronteggiare da solo lo spazio enorme e nudo della Corte d’Onore del Palazzo dei Papi di Avignone e dichiarare solo il suo nome, la muta selvaggia che lo assale mette in scena lo smembramento dionisiaco con un’autenticità e una forza epiche, una distribuzione del corpo nel corpo che non ha pari in altri media, una metamorfosi in atto.

ROMEO CASTELLUCCI: UNA NUOVA IDENTITA’ PER L’UOMO CONTEMPORANEO

L’uomo, attaccato solo per il semplice fatto di esistere, di dichiarare la propria univoca identità, viene ridotto al silenzio e diventa nuovo capro espiatorio sacrificale in un mix inebriante col sangue. Altra vetta della dorsale disegnata da Boato è appunto l’importanza del sangue e del silenzio in questo teatro, quella che Annalisa Sacchi ha chiamato “la bocca muta della ferita”. La sequenza celeberrima del Giulio Cesare in cui la telecamera endoscopica inserita nella narice rende visibili le corde vocali che si contraggono e si muovono, è un vertiginoso correlativo oggettivo. Il pezzo di retorica di Marco Antonio sfrutta le ferite di Cesare, metaforiche bocche mute che accusano i colpevoli: in un rovesciamento micidiale l’attore emette parole proprio da una ferita, creando una nuova lingua di suono e silenzio, un nuovo sangue alluso e intravisto, in un effetto magnifico e totalmente imprevedibile.

Non ci sono più dei a cui sacrificare”, come dichiara Castellucci nell’intervista che è parte integrante del documentario. E allora l’uomo diventa dio di se stesso, offrendo il proprio sangue sull’ara del palcoscenico, nuovo naos che non ha bisogno di sacerdoti e dove la deità si esprime attraverso la tecnologia il cui potere estraniante è in grado di conferire nuova dimensione al quotidiano. L’effetto è un teatro che nel suo essere “antibiotico”, contro la vita, infonde nuova linfa senza bisogno di ricorrere alla provocazione fine a se stessa e senza cedere alla tentazione di diventare puramente educativo, lungi da un certo teatro di impegno sociale ammiccante ad uno o all’altro colore politico.  Anche nella sua evoluzione più recente, da Le Metope del Partenone a Democracy in America, seppur abbandonando un riferimento diretto alla drammaturgia classica, l’intento del regista romagnolo resta quello di scoprire la vita attraverso quel “passo violento e laterale” che è il teatro, estraneo così a quella semiretta dell’esistenza la cui origine, contemplata adesso da un nuovo punto di vista, è naturalmente lontana da ideologie e partitismi.

Le regie e le scelte fatte da Castellucci non lasciano scampo. Inutile ricercare sofismi e fini provocatori da intellettuali radical-chic. Se si esce stupefatti o sconvolti dopo la visione, avremo solo assistito alla trasformazione della nostra dimensione umana in linguaggio, il linguaggio del nucleo più profondo che risulta inintelligibile applicando i filtri della comunicazione. Privilegiato colui che privo di ogni filtro sia in grado di interpretare e di vivere quella catarsi in fieri, sfuggente ad ogni tentativo di formalizzazione. Un fenomeno al quale, come per il teatro di Castellucci, è impossibile mettere la parola fine.

TRAILER

THEATRON. ROMEO CASTELLUCCI

autore e regista Giulio Boato
musica originale, sound design Lorenzo Danesin
cinematografia Giulio Boato, Stéphane Pinot, Alberto Girotto
montaggio Giulio Boato
produzione esecutiva Gildas le Roux
produzione La Compagnie des Indes
premi “Best feature documentary” al New Renaissance Film Festival 2018 di Londra
foto Giulio Boato

image_pdfSCARICA QUESTO ARTICOLO IN FORMATO PDF