È in scena al Teatro India, fino al 18 marzo, “DISGRACED”, testo con cui l’autore Ayad Akhtar vince il premio Pulitzer per la drammaturgia nel 2013; regia di Jacopo Gassmann che ha anche il merito, curandone la traduzione, di far conoscere una tragedia attuale, ricca di supposizioni, domande, riflessioni, scevra di risposte univoche e certe.
“Caduto in disgrazia“, disonorato, questo significa disgraced, ma la parola inglese conduce per assonanza al più congruo termine italiano disgregarsi.
L’autore americano di origini pachistane, Akad Akhtar, vince nel 2013 con Disgraced il premio Pulitzer per la drammaturgia, Jacopo Gassmann ne propone la prima messinscena italiana al teatro India di Roma.
Ci troviamo nel salotto alto borghese di una matura coppia, moderna e progressista; ogni oggetto, colore, disposizione delle cose, assenza di cose, ci parla della collocazione sociale dei personaggi. Un minimalismo votato all’ essenzialità, alla scelta accurata degli oggetti, perché tutto parla di noi, comprese le parole che usiamo, il nome che portiamo.
Nulla è casuale, ogni dettaglio riconduce alle origini. La scenografia di Nicolas Bavey ricrea, dunque, abilmente, una realtà sociale connotata dalla scelta attenta degli oggetti: un interno accogliente, dai toni armoniosi, dai colori luminosi e avvolgenti, mentre irrompono note musicali stridenti e penetranti, insieme ad ombre che incombono sulla scena vuota.
Due coppie colte e benestanti, raccolte in un salotto: sembra essere il privilegiato angolo d‘osservazione assunto da diversi autori del teatro contemporaneo, per posizionare la lente d‘ingrandimento e rilevare la trama del tessuto misterioso e poliedrico, come quello della nostra multietnica società. La cena elegante in cui due amabili coppie sembrerebbero disposte a conversare amabilmente su qualsiasi tema, perché sono individui liberali, aperti e tolleranti, diventa insomma la premessa che conduce al massacro o, appunto, alla disgregazione, al disonore: fino a che punto siamo disposti a tollerare la diversità? Ayad Akhtar sembra giocare con questo confine inespresso, sottile ma netto.
L’autore sembra esplorare i modi in cui si definisce l’identità, in una società che dichiaratamente rifiuta il razzismo e le discriminazioni, salvo poi tradirsi quando il diverso è un po’ troppo diverso; prende in considerazione molte delle categorie sociali con cui si costruisce l‘identità, che sono anche politiche, sancite dalle carte dei diritti o dalle costituzioni: il diritto ad un nome, il diritto ad un lavoro, ad una casa, ad una famiglia, la libertà confessionale, la libertà di pensiero, di espressione…
Akhat ripercorre, nella sua attenta ricostruzione, tutte queste tappe e il regista è qui abile nel sottolinearne le sfumature di significato: Amir è pakistano, si è dichiarato indiano presso l‘ufficio di avvocatura in cui lavora, perché l’India, al momento del suo espatrio negli Stati Uniti, era ancora un paese unito e il Pakistan non esisteva, ci spiega; Amir ha cambiato nome; ha abbandonato l’islamismo e si definisce apostata, sapendo che questa categoria non è contemplata nel suo paese d‘origine, in cui si viene per questo condannati a morte; Amir ci racconta un lungo aneddoto della sua infanzia in cui lui stesso, su istigazione della madre, è costretto ad umiliare per l’appartenenza religiosa, una bambina di cui si era innamorato. Episodio che lo porterà però a rifiutare la sua stessa madre, i valori di cui è portatrice, e in cui non trova più il legame di condivisione affettiva, prima ancora che religiosa ed emotiva. È l‘alfabeto affettivo che Amir non condivide più con la madre e la sua famiglia d‘origine, perché se lei parla della bambina Israeliana o ebrea, la cui identità religiosa viene individuata dalla madre appunto attraverso il nome, lui ha in mente soltanto la prima bambina di cui si è innamorato.
Cosa rimane ad un individuo quando il paese d’origine è un lontano ricordo, la lingua sostituita, la religione abiurata, la famiglia ripudiata e dichiarata estranea? “Sei passato dall’altra sponda!” gli rimprovera il nipote, Abe, lui si schermisce. Ma il problema, in realtà, è che Akhtar coglie l’individuo tra le due sponde, perché abbandonata la sponda della partenza, del luogo d’origine, non si sente davvero accolto in quella d’approdo. La carriera è difficile e segue logiche oscure ed inespresse, mentre si ricerca faticosamente l’appartenenza identitaria attraverso camicie da seicento dollari.
L’esperimento antropologico di Akhat consiste nel creare coppie asimmetriche e speculari: Amir avvocato pakistano, Emily artista newyorchese, (la prima coppia) avvocatessa afroamericana Jory, gallerista ebreo, Isaac ( la seconda coppia). Artista, avvocato; bianco, nero; uomo, donna; ebreo, musulmano. Si diverte a giocare con gli opposti per mettere in luce ciò che in realtà è acclarato, ma in disaccordo con il principio di civiltà, l’essere umano non ama il disaccordo, la dissonanza, ciò che differisce da se stesso e non lo riconferma.
La specularità delle due coppie è nei colori della pelle e nelle professioni. Nella costruzione dell’identità infatti Akhat non trascura il rilievo della professione che si pratica e che ci forgia giorno dopo giorno. Quanta scelta abbiamo nella definizione della professione? “A noi lasciano i casi finanziari, siamo i nuovi ebrei” dice Amir alla collega Jory.
C’è un personaggio in questo dramma moderno a raccontarci un incipit, il sorgere di un dolore, di un’incomprensione che separa come muri invisibili culture che pure vivono l’una a fianco all’altra: il giovane nipote di Amir, Abe, in cui il dibattito interiore, nel formarsi della personalità, è più aperto e stridente, ha bisogno di trovare appigli per ancorare l’orgoglio della diversità, e l’attore, Marouane Zotti, è molto convincente nell’esprimere le ambivalenze, ma si scontra con una realtà sfuggente nella sua ostilità. “Non è un mondo neutrale, quello che incontri fuori” gli spiega Amir.
Abili ed efficaci gli attori, Hossein Taheri e Lisa Galantini, una coppia credibile nei dialoghi di serena quotidianità o nell’estraneità e disperazione che dirompono. Le seconda coppia, interpretata dagli attori Saba Anglana e Francesco Villano, introduce caratteri e toni diversi e dissonanti, anche convincenti e con una forte presenza scenica.
Un limite in questo spettacolo è che si cercano i tempi e i ritmi, anche i toni recitativi, della commedia brillante, che rendono lo spettacolo sicuramente godibile e a tratti esilarante, ma anche meno graffiante, meno provocatorio, ne alleggeriscono la dirompente rottura insita nel testo stesso, che se ne frega delle buone maniere e del ben pensare. Perché, dunque, essere ancora così ancorati all’artificialità della perfetta dizione, del tempo puntuale della battuta, quando la vita è sempre fuori tempo?
Eleonora Duse ha dato vita ad una rivoluzione teatrale, hanno sostenuto i testimoni, quando ha cominciato ad essere interprete del senso delle parole, non poteva non pensare, credere e vivere ciò che pronunciava, insomma non le bastava più esprimere la disperazione appendendosi ad una tenda. Akhat ha il coraggio di dire ciò che non ci si aspetta che venga detto, i registi, gli attori di questa capitale europea sonnolenta, attenta alle buone maniere, alla ricercatezza della buona classe, hanno il coraggio di fare ciò che non ci si aspetta che venga fatto in teatro?
Info:
Dal 6 al 18 marzo al Teatro India
DISGRACED di Ayad Akhtar
traduzione e regia Jacopo Gassmann
con Hossein Taheri (Amir), Francesco Villano (Isaac), Lisa Galantini (Emily), Saba Anglana (Jory), Marouane Zotti (Abe)
luci Gianni Staropoli – video Alfredo Costa – scene Nicolas Bovey – costumi Daniela De Blasio
assistente alla regia Mario Scandale – assistente scenografa Nathalie Deana
Produzione Teatro di Roma e Fondazione Luzzati -Teatro della Tosse
Joseph Jefferson Award nel 2012 come miglior Nuovo testo
Premio Pulitzer 2013 per il Teatro
Obie Award 2013 per la Drammaturgia