DIO RIDE @Teatro Puccini Firenze: il dono dell’erranza

DIO RIDE l’opera di Moni Ovadia, in tournèe da venticinque anni, è approdata al Teatro Puccini di Firenze il 28 novembre, e ci ha portato al largo, oltre ogni muro e riparo, nella complessa e vibrante spiritualità ebraica, generosa di umorismo, malinconia e dubbi.

Attendiamo guardando il palco, due grandi valigie ai bordi di un fragile rialzo di legno e quello sfondo con sagome nere di musicisti senza tempo. Ma i suoni si formano alle nostre spalle, dal fondo della platea. Colpetti di fisarmonica e violino finchè la musica prende il via tra le sue curve dietro le note imprevedibili di un clarinetto. I musicisti senza tempo in carne e ossa avanzano in fila, con lanterne in testa, trasformando la platea in stradine all’aperto e campi stellati. Siamo nella scia dei gitani, dentro un’armosfera calda e surreale, all’inizio di una festa, già grati. Moni è un colosso d’anima, forte struggente, ci calamita dentro il corpo viandante delle sue parole. Parole in esilio, scomode, ai margini di questioni eterne e irrisolvibili. Su Dio e la terra promessa, che si dà solo se la si attraversa, restando stranieri, sapendosi tali e mai proprietari. Così come Dio si dà nella sua assenza. E quanto straordinario, unico umorismo scaturisce proprio da questo dialogo sfasato e senza risposta. Già l’origine del popolo ebraico ha qualcosa di sublime e ironico. Gli ebrei nascono ultimi. Erano meticci allo sbando: asiatici, ittiti, egizi, “una banda malmessa che seguirà un profeta balbuziente: Mosè”. E un dio che sceglie dal peggio. Ovadia ci dona ‘storielle’ da una sapienza secolare, di una freschezza clamorosa, uguale alla sua espressività. Come quella dell’ebreo centenario che prega davanti al muro del pianto e si piega sempre di più sotto il sole cocente, e al turista sconvolto che interviene e chiede se le sue richieste saranno esaudite, il vecchio risponde “ce l’ha presente parlare con un muro?” L’umorismo ebraico disarma la prepotenza e la stupidità degli uomini e disarma l’assenza di Dio, facendolo parlare e ridere di sè. Quando in un cimitero due ebrei litigano per un pezzo di terra, il rabbino li calma e dice: scusate, chiediamo alla terra e poi riferisce loro che la terra ha detto che sarà di chi ci vuole entrare per primo.

La voce divina quando si è manifestata nelle scritture è andata contro ogni ‘bene’, è stata scandalosa, sismica, ordina di partire e lasciare terra e famiglia. Abbandonare ciò che ci sembra più sacro per rischiare la più alta spiritualità che si trova altrove, nel ‘deserto’, dove restar spersi viandanti. L’ebreo di Ovadia è nella nostalgia dell’esilio. 3340 anni di esilio, in cui la spiritualità è arrivata ai suoi apici, esilio da cui sorge la cabala, da cui prende vita la Torah come patria mobile del popolo ebraico e Dio stesso deve osservarla. Il ‘viandante e narratore’ non desidera affondare nelle piaghe di persecuzioni isolamenti e stermini, ma desidera far affiorare la forza inestinguibile di una condizione errante che non smette mai di interrogarsi. Un ‘senza dimora’ come attraversamento tracendentale e continuo scambio e fermento di conoscenza. La fede che nasce prima dell’ateismo è infantile e becera, afferma Ovadia, “bisogna stazionare nell’ateismo” e “l’unico modo di credere in Dio è dubitare”, restando sperduti ma in tensione. Ora è chiaramente comprensibile quanto tutto ciò sia sovversivo e audace e quanto per questo ci appartenga quest’odissea. L’ebraismo si fa metafora della più accesa umanità, nella sua originaria erranza, precaria e preziosa, un’identità di straniero sospeso tra cielo e terra, un’identità in metamorfosi, sempre nella direzione infinita di una ricerca e di un instancabile movimento di pensiero che affonda le radici nella diversità delle culture che si intrecciano. Lo spettacolo è un intenso e spassoso nutrimento. L’artista alterna brevi alte riflessioni, storie geniali e canzoni. Ovadia quando canta e danza si trasforma, come entrando nella sua dimensione più naturale, nei dintorni di un misticismo, siamo rapiti da una commozione energica e lacerante e vorremo restarci. Quella sua voce così fonda e caldamente estesa è un abbraccio e un richiamo oltre ogni soglia.

Sul finale Ovadia si dissocia dal nazionalismo ebraico, dalla guerra ai palestinesi. I muri servono solo per respingere e segregare, e chi più degli ebrei lo sa? Che siano finiti per ergerli è una tristissima caduta, un misconoscimento, un tradimento dell’essenza profonda che ha innervato tutto il loro cammino. E racconta un’altra storia umoristica: “un padre ebreo mostra al figlio gli ulivi e dice questi li ha fatti il nonno, mostra la casa e dice questa l’ha fatta il nonno, mostra il pozzo e dice questo lo ha fatto il nonno. Allora il nipote dice al nonno non lo sapevo non lo sapevo… che eri palestinese.” Dopo i sentitissimi applausi di questo risveglio apprezziamo il suo ringraziamento alla direzione del Teatro Puccini con le sue scelte azzardate, mai asservite alla politica del consenso.

 

Info:
DIO RIDE (Nish Koshe)
di e con Moni Ovadia
violino Maurizio Dehò
contrabasso Luca Garlaschelli
fisarmonica Albert Florian Mihai
clarinetto Paolo Rocca
cymbalon Marian Serban
luci Cesare Agoni, Sergio Martinelli
scene, costumi ed elaborazione immagini Elisa Savi
progetto audio Mauro Pagiaro
regia Moni Ovadia
produzione CTB – Centro Teatrale Bresciano e Corvino Produzioni

Teatro Puccini
28 novembre 2019

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