Giovanna Lombardi ha debuttato come protagonista del testo DIARIO LICENZIOSO DI UNA CAMERIERA di Mario Moretti con la regia di Gianni De Feo: alle Stanze Segrete si assiste al tentativo di raccontare un mondo lontano apparentemente anni luce dal nostro tempo, ma in cui sono presenti tutti quei sentimenti di rivalsa sociale che ancora oggi possiamo riconoscere intorno a noi. Un tentativo interessante ma con alcuni limiti che lo rendono purtroppo incompleto.
Celestine è una cameriera, va a servizio probabilmente da quando la sua memoria ha cominciato a funzionare, e di cose ne ha viste tante. Ha cambiato spesso padrone, a sentire lei, ha una conoscenza del mondo ampia, gli occhi ovunque, pronti a leggere la realtà che la circonda. È una donna di mondo e, soprattutto, è una donna che per sopravvivere sa adattarsi alle circostanze.
Ecco quindi la scheda biografica di Celestine: donna, cameriera, emarginata e possibile vittima della società borghese dove è costretta a lavorare.
All’inizio un personaggio di questo tipo non può che incuriosire, affascinare: chiunque abbia un minimo di conoscenza letteraria, capisce i riferimenti agli archetipi più interessanti della nostra cultura, da Jane Eyre a Moll Flanders e così via. Quindi, entrando a teatro, ci si aspetta di incontrare un personaggio in cui ironia, sensibilità, intelligenza e malizia si mescolino insieme per svelare gli altarini del bel mondo, di quella alta borghesia che a inizio Novecento stava sempre più prendendo il posto dell’aristocrazia in quanto a stili di vita, mode, arroganza e chiusura mentale.
Eppure lo spettacolo di cui è protagonista la nostra Celestine non sembra riuscire a raccontarla pienamente questa storia.
Il primo punto che gioca a sfavore è la drammaturgia: il testo di Mario Moretti, riadattato da De Feo, a volte è lacunoso, i passaggi dal presente ai ricordi di Celestine appaiono troppo distaccati, come se si saltasse da un capitolo a un altro voltando una pagina. Spesso non c’è un vero filo logico che colleghi il passato al presente. E non può nemmeno definirsi un flusso di coscienza. Celestine non è Molly Bloom: il suo non è un perdersi nella riflessione dove tutto si sussegue un’onda dietro l’altra fino a confondersi. Celestine racconta la sua vita alternando ricordi ad attimi appena vissuti in un modo poco convincente, spesso affidandosi a un oggetto – un libro, una teiera – che però non ha un vero aggancio con il racconto in cui lo spettatore è entrato, ma anzi compare quasi all’improvviso perché Celestine lo afferra e da lì cambia improvvisamente argomento di conversazione.
I fili narrativi così si perdono, nonostante Gianni De Feo esplori quel mondo con attenzione, curando in modo particolare il tessuto sonoro che avvolge la storia e lo spettatore in una atmosfera ai limiti del voyeurismo.
Giovanna Lombardi diventa forte e presente soprattutto quando si rivolge direttamente al pubblico, rompendo la classica divisione fra palco e platea, favorita anche dallo spazio di Stanze Segrete. In quei momenti anche la sua voce cambia e la verità esce fuori con prepotenza, affascinando chi la guarda. In altri momenti invece la sua interpretazione manca di toni più intimistici, più profondi, come rimanesse in superficie e non andasse a scavare nel torbido di Celestine. Esempio è il racconto del rapporto fra la donna e un giovane padroncino, affetto da tubercolosi, che si innamora della serva (classico topos letterario). La donna, dopo numerosi tentennamenti, cede e ricambia quell’amore, nonostante sappia fin troppo bene di mettere a rischio la sua stessa salute.
Cosa spinge Celestine fra le braccia di un uomo sempre più vicino alla morte? Perversione, pietà, vero affetto? Non si capisce e, nonostante possa essere una scelta registica, rimane comunque il dubbio che sia più che altro una mancanza di appoggi testuali e di scavo psicologico.
Peccato, perché gli occhi di Giovanna Lombardi catturano, possiedono una profondità misteriosa che sarebbe stato appagante ritrovare nello spettacolo.
E ancora più appagante sarebbe stato vedere e sentire l’acme di questa intensità alla fine, quando Celestine abbandona l’ultimo lavoro per scappare col giardiniere, un uomo più vecchio, brutto, scorbutico, forse un assassino. Celestine lo segue e finisce in un Cafè circondata da marinai, legata in un rapporto ambiguo con quell’uomo che costantemente le rinfaccia di essere una puttana, mentre lei gli ripete che è un assassino.
Quest’ultima scelta di Celestine, nelle intenzioni una ribellione al suo status sociale e una manifesta indifferenza ai pregiudizi, nella realtà sembra piuttosto un cedimento a quella ipocrisia tutta borghese da lei tanto disprezzata, quella ipocrisia che puzza anche quando si è puliti.
“Sono ubriaca, come pazza… non ho altra volontà se non quella del mio desiderio e la seguo senza badare più a niente”, così dice la nostra Celestine che però non afferma la sua femminilità in una estrema spinta volontaristica che le fa rinnegare tutti i tabù culturali sulla donna (brava madre, brava moglie, al massimo brava serva), né si rivela fragile vittima del gioco uomo – donna (la donna sacrificata, la donna dominata).
No, non vediamo nessuno di questi due casi, ma semplicemente un collocarsi volontario in una zona grigia dove, nonostante il rosso dell’abito indossato, tutto si appiattisce in una indifferenza fastidiosa, quasi che tutto quello cui abbiamo assistito non sia realmente accaduto, ma sia solo il frutto di una fantasia perversa, di una mente che ha costruito una storia cui far abboccare chi la ascolta.
Info:
Giovanna Lombardi in
DIARIO LICENZIOSO DI UNA CAMERIERA
di Mario Moretti
liberamente tratto dal romanzo Journal d’une femme de chambre di Octave Mirbeau
Regia Gianni De Feo
assistenti alla regia Andrea Alberto e Giulia Corbi
allestimento scenico e costumi Roberto Rinaldi
foto e grafica Manuela Giusto