A cosa serve la poesia? Ed è ancora possibile? Se lo domandava Eugenio Montale, poche decine di anni fa, e se lo domanda Michele Santeramo, in scena in prima nazionale al Teatro Era con il suo Di qua dall’infinito. Reading, concerto, tessitura di voci, un bellissimo quilt poetico che innesta il poema leopardiano a Bukowski, a Pascoli, ad altre voci, “tanto per stare un po’ in compagnia”. Due diari che si cuciono, sotto la voce delicata e potente dell’interprete, e mille messaggi in bottiglia che il pubblico stesso prepara, su carta oppure online, per diventare almeno pronti a ricevere l’epifania, pronti a esercitarsi a mantenerla.
L’entrata nel saloncino del Teatro Era, affollato per lo spettacolo, è da subito un salto dimensionale. Uno spazio affollato di strumenti musicali, di computer accesi che forniscono occhi di luce, di mixer. Un vecchio telefono, grigio. La presenza incombente di un contrabbasso che, posizionato dietro il tavolo, con le sue curve dolci chiude il cerchio. Parleranno, lui e la chitarra, sotto le dita sapienti di Sergio Altamura e Giorgio Vendola: ma la prima musica a snodarsi è quella delle parole. A che serve la poesia?, si chiede, e le risposte sono molte. A consolarci, a distribuire bellezza, certo: ma innanzitutto a fermare il tempo. A fornirci quella necessaria sospensione, quella grazia di risparmio e focalizzazione che fa sì che non tutto scorra, ma che qualcosa si fermi – e si a-ffermi, si chiarisca, si amplifichi, si eterni. “Le cronache raccontano con sufficiente certezza che Giacomo Leopardi scrisse L’infinito dalle 12 e 45 di una mattina di primavera. Questa che si racconta qui è la vera, verissima ricostruzione di quel che accadde durante quella mattina, fino alle 12 e 45 e oltre, addirittura fino a ‘in questo mare’”. Come e cosa può avvenire? Com’è possibile che qualcuno che “va incontro alla vita con la speranza che la vita non lo deluda anche oggi”, poi, folgorantemente, scriva un capolavoro? Come e da dove arriva l’ispirazione? La risposta di Michele Santeramo sembra echeggiare la concezione classica, etimologica: l’ispirazione si in-spira, si tira dentro di noi da fuori. Il passaggio in cui la poesia, personificata, va incontro al poeta, senza volto, senza parole, solo aprendo in lui una cosmica esperienza, una prodigiosa capacità creatrice, è magistrale, e addirittura commovente. “Come va?” chiede, infatti, l’affabulatore, consapevole di quanto provoca ‘l’inganno dell’arte’. L’ispirazione si insinua come un virus, si coltiva come un’arte: scrivendo, fermando il tempo, sabotando l’oblio, diventando, in breve, persone in grado di scrivere L’Infinito, o almeno, se almeno si può dire, di capirlo. Purtroppo per noi, invece, il nostro destino è spesso di rimanerne al di qua – esclusi, inattivi. O meglio, rimaniamo coi piedi un po’ al di là della famosa siepe e un po’ al di qua, dove l’infinito fa capolino soltanto per frammenti: attimi di incredibile calma, momenti sospesi nella speranza o traballanti nell’orrore annunciato.
Si inserisce qui una storia, a cui la poesia leopardiana fa cornice, una storia tipica dell’affabulare di Santeramo, scandita da nuclei poetici e retorici ripetuti, insistiti, talvolta con evidenti fenomeni di memoria interna (Mariana “va in pezzi come un vaso di cristallo”, dice il narratore, evocando la Moglie interpretata da Valeria Solarino all’ultimo Festivaldera, pronta a tutto per preservare il suo io di cristallo), una storia di violenza terribile e insensata: in un teatro francese, in cui “un momento prima si recitava Moliére”, uomini armati scandiscono un tempo folle eliminando senza motivo due persone ogni quarto d’ora. Nell’angoscia impossibile di un “simile modo di scandire il tempo”, il capolavoro leopardiano viene riconosciuto come l’antidoto al terrore, alla frenesia e alla disumanità. È lontano, è incomprensibile, è inutile – non serve a niente, perché la violenza vince comunque, il mondo si distorce e l’umanità intera sembra voler rinunciare completamente alla poesia e ai suoi valori – eppure, ci salva. Perché la poesia, in fondo, è accessibile. Basta scrivere. Fermare il tempo. Sperimentarla (se qualcuno andasse davvero a vederle, le stecchite piante di Pascoli, capirebbe…): subito. Invitati a farlo, per tre minuti gli spettatori scrivono, su carta o su smartphone, qualcosa. Qualcosa di importante, quella differenza necessaria, quella piccola fermata dentro di noi, in noi, che fa sì che sappiamo, avvertiamo che, come sussurra un altro grande poeta, Mark Strand, “l’infinito più grande è quello che abbiamo dietro le palpebre chiuse”.
Lo spettacolo finisce. L’interprete ci avvisa che non è previsto che lui e i compagni escano di scena, che è il pubblico a doverlo fare. La riluttanza con cui gli spettatori defluiscono dalla piccola sala, da questo studio delle meraviglie, dimostra che l’incantesimo si è compiuto, e che “la poesia non è di chi la scrive, ma di chi gli serve”. Proprio così.
Info:
DI QUA DALL’INFINITO
di e con Michele Santeramo
musiche dal vivo di Sergio Altamura (chitarra) e Giorgio Vendola (contrabbasso)
e la partecipazione di Fabio Facchini
luci Monica Bosso
suono Flavio Innocenti
foto di Nico Lopez Bruchi
produzione Fondazione Teatro della Toscana
Teatro Era, Pontedera
23 novembre 2019
PRIMA NAZIONALE