Un enigma risolto brillantemente dal Balletto di Roma, quello di come coniugare la danza contemporanea e il tango. Un enigma che però, a ben vedere, aveva già in sé la soluzione nella passione che permea la danza, tutta. La Compagnia, al suo debutto ieri sera con “Astor”, al Teatro Vascello e magistralmente coreografata da Valerio Longo, non era sola: ad accompagnare i giovani talenti attraverso il percorso e l’evoluzione personale e artistica del grande Astor Piazzolla, c’era il Maestro Mario Stefano Pietrodarchi che ha suonato, dal vivo, le note di alcuni dei brani più rappresentativi della vita di Piazzolla, con il suo bandoneon.
Buio in sala si va in scena.
Una regola non scritta, che tutti conosciamo. Un lasso di tempo indefinibile durante il quale i sensi si acuiscono, come a voler percepire il più piccolo spostamento d’aria al di là del sipario, il suono più flebile o il movimento più impercettibile.
All’ improvviso, la musica. Lontana. Proviene dalle strade polverose di Buenos Aires: è così che vorremmo incontrare il tango la prima volta, seguendo la melodia inafferrabile di un bandoneon, sbirciando tra le crepe di una porta che lasciano intravedere l’alchimia che pervade l’interno di una sala calda e fumosa, piena di ombre proiettate sulle pareti, che si muovono all’unisono.
Nella prima parte dello spettacolo, sarò sincera, ho faticato ad “accettare” una rivisitazione di questa danza che non passasse, nell’immediato, attraverso il contatto fisico o visivo: avevo la netta sensazione che la musica venisse in qualche modo sprecata, in assenza delle caratteristiche che tutti noi associamo storicamente al tango. I costumi, nella loro eccessiva semplicità e soprattutto nel colore, sono stati l’unica nota di demerito: forse troppo simili all’abbigliamento dei danzatori in sala prove, non rendevano a mio parere giustizia all’abbondanza emotiva che questo spettacolo ci avrebbe poi donato.
È bastato poco, però, per far venir fuori la magia di questa danza struggente: un “semplice” fondale illuminato ed ecco che i corpi diventano ombre in contrasto col blu dell’oceano, dalle quali trasuda tutta l’anima del tango, la timidezza dei primi approcci, la passione dei suoi interpreti storici, l’orgoglio di un’intera Nazione, la malinconia di un popolo di migranti, il tormento di un uomo.
Gradualmente il corpo di ballo si è amalgamato con il musicista, tenuto un po’ isolato in principio. La prima parte, come abbiamo appreso presto tutti, ha avuto il ruolo di distruggere l’immagine più stereotipata del tango come noi lo idealizziamo, per poi riconsegnarcelo, nella seconda parte, destrutturato eppur arricchito. Così, in modo naturale, il respiro si è fuso con le note che animavano i movimenti perfetti degli otto danzatori, che hanno tenuto la scena impeccabilmente.
Nel tango, tutto ha un peso differente. Le pause sono quasi tangibili, le sospensioni sono più dilatate nello spazio e nel tempo e lo sguardo ha una determinata consistenza: quella della malinconia. Tutto questo è stato perfettamente colto nel disegno coreografico e musicale, il corpo dei danzatori è diventato uno spartito leggibile per il musicista che ha tradotto per noi lo struggimento di questa danza meravigliosa. Come concludere, quindi, uno spettacolo che è un viaggio nella vita di uno dei più grandi artisti della storia contemporanea ?
Semplicemente, non può finire: le mani continueranno a sussurrare segreti e rimorsi, mentre scorrono instancabilmente sulla tastiera del bandoneon.
Perché, in fondo, si torna sempre… como se vuelve siempre al amor.